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C’era una volta un paese lontano…Cinema, sordità e identità

Premessa
In un brano di Platone si parla di sordi che si esprimono muovendo le mani, ma le prime notizie storiche sull’uso dei segni nell’educazione dei bambini sordi risalgono al Cinquecento, quando Girolamo Cardano si pone il problema dell’istruzione dei sordomuti e Pedro Ponce de León viene chiamato da un nobile castigliano a educare i suoi tre figli non udenti. Il suo metodo, più tardi ripreso da Juan Pablo Bonet e basato sull’imitazione della posizione dei diversi organi atti ad emettere i suoni e sulla lettura labiale, è all’origine dell’oralismo, che domina i metodi europei ininterrottamente fino alla metà del XVIII secolo. Nel 1760 l’abate L’Epée fonda a Parigi l’Institut National des Sourds-muets, creando un metodo basato sulla gestualità. A guidarlo è l’idea – rivoluzionaria – del gesto come lingua naturale o materna. L’Epée forma degli insegnanti e il suo sistema si diffonde anche nel resto d’Europa.
Nel 1817, R.A. Bébian, responsabile pedagogico della scuola, propone una tesi altrettanto innovativa: la considerazione che la lingua dei gesti è insostituibile, concezione che legittimerà l’esistenza di cattedre occupate da docenti sordi. Nell’Ottocento tra i sostenitori della scuola oralista e quelli della lingua dei segni le polemiche si inaspriscono e nei paesi dove nasce la scuola dell’obbligo prevale l’uniformazione dei metodi. L’Italia non è esclusa da questo processo, soprattutto a causa della recente unificazione del Regno e della necessità di una lingua unica. Con il Congresso di Milano del 1880, gestito per lo più da educatori francesi e italiani, il linguaggio dei segni viene infine proscritto. A questa data, tuttavia, il linguaggio dei segni già stato importato negli Stati Uniti e, dalla collaborazione tra Laurent Clerc, uomo di cultura sordo di nascita e Thomas Hopkins Gallaudet, nascono nel nuovo continente diverse scuole, finché il figlio di Gallaudet, Edward, fonda nel 1864 il primo College per sordi, divenuto in seguito Gallaudet University (Washington), tuttora attivo .
Dal precinema al cinema
La questione della sordità (delle sordità) ha da subito riguardato il cinema, anche prima della sua nascita. Una figura centrale in questo senso è quella di Georges Demeny (1850-1917), che sperimenta con successo il suo fonoscopio presso l’Institut National des Sourds-muets nel 1891. Si trattava, in pratica, di realizzare dei “ritratti viventi”. Con l’aiuto del prof. Marichelle, i giovani sordi dell’istituto decifravano così il movimento delle labbra e si esercitavano a ripetere le parole pronunciate, secondo i principi della scuola oralista che il Congresso di Milano aveva rigidamente sancito. Questo sistema è risultato utile, in anni recenti, per il recupero di alcuni film, la cui colonna sonora si era deteriorata.
Uno dei casi più noti è quello di Lawrence d’Arabia (David Lean, GB, 1962), il cui restauro, curato da Robert Harris alla fine degli anni ’80 si è avvalso del contributo di una coppia di sordi per la decifrazione di alcuni dialoghi. Lo stesso è avvenuto per La dame de Malacca (M. Allégret, 1937), ma spesso questi speciali collaboratori non hanno avuto la soddisfazione di godere del risultato del loro lavoro. Il problema è peraltro di portata molto più ampia e riguarda l’accessibilità dei sordi al cinema in generale, compresi paradossalmente i film interpretati da attori non udenti come il notissimo Figli di un dio minore (R. Haines, 1986) con Marlee Matlin, premio Oscar per la recitazione, o i “classici” di Truffaut L’uomo che amava le donne (1977), con Roseline Puyo, e La camera verde (1978), con Patrick Maléon, o ancora, per citare un titolo italiano, La lunga vita di Marianna Ucria (R. Faenza, 1996) con Emmanuelle Laborit. Da quanto detto fin qui emergono allora gli elementi per una riflessione sulla sordità come “cittadinanza”; la disabilità si trasforma cioè in un problema di identità culturale e linguistica. In rapporto al cinema questo fenomeno è lampante: i sordi possono fruire soltanto (e parzialmente) il cinema straniero in lingua originale sottotitolato, dato che sono ancora molto rari i casi di pellicole con sottotitoli specifici per non udenti.
Cinema, sordità e identità
Sin dalle “vedute” Lumière, il cinema ha avuto tra le sue funzioni quella di aprire delle “finestre” su aspetti del mondo che ci resterebbero sconosciuti. Allo stesso modo, più di ogni altro mezzo di comunicazione è riuscito ad aprire un varco ai non addetti ai lavori verso il mondo della sordità. Tuttavia, se il grande schermo ha presto ospitato personaggi deformi, colpiti da amnesia, da autismo o da cecità, i sordi sono stati a lungo delle presenze quasi invisibili. Spesso si è trattato di personaggi prettamente funzionali alla narrazione (Uomo bianco tu vivrai, J. Mankiewicz, 1950; L’ora del delitto, I. Lupino, 1956) o di caratteri comici (Un cappello di paglia di Firenze, R. Clair, 1927; Il romanzo di un baro, 1936, S. Guitry; Straziami, ma di baci saziami, D. Risi, 1968), che non approfondiscono la questione della diversità . Diversità che è già insita nella parola “sordo”, non adeguata ad indicare le varie tipologie di questa forma di disabilità, che vanno dai sordi di nascita, quindi “gestuali”, ai mal udenti con o senza apparecchio e ai sordi acquisiti, spesso, quindi, oralisti. È invece proprio la comprensione della differenza l’elemento più interessante di quei film che, trattando di sordità, permettono realmente di penetrarne il mondo e di scoprirlo. In questo senso, sembra che nel tempo il cinema abbia percorso un lungo cammino prima di giungere a lavori che pongono la questione nei termini del riconoscimento di una minoranza, introducendoci contemporaneamente alla conoscenza di quest’ultima e mostrando quanto, nel confronto tra udenti e non udenti, tra le loro lingue e le loro culture, la disabilità sia in fondo reciproca.
Oltre la metafora
La questione dell’identità culturale è stata messa in evidenza in termini metaforici, ad esempio, in un film come Le cercle parfait (A. Kenovic, Bosnia/Francia, 1996), in cui due orfani, di cui uno sordo, si sono persi in una Sarajevo in pieno disfacimento, un luogo “senza più voce né lingua” . Se la figura del sordo a volte funziona come metafora dell’incomunicabilità o della perdita di identità, film come Le pays des sourds (N. Philibert, 1992) o Sourds à l’image (B. Lemaine, 1996) penetrano nel mondo complesso della sordità grazie alla collaborazione di interpreti non udenti, i quali rivendicano la loro specificità e il diritto di non adeguare la propria lingua (e la propria cultura) a quella degli udenti. Con questi film sembra che il cinema sia finalmente giunto negli anni Novanta a sviluppare un discorso maturo sulla questione. Ripercorrendo infatti brevemente la storia del cinema , si osserva che all’epoca del muto, benché in modo limitato, personaggi e attori sordi sono presenti in vari film. A cavallo tra gli anni Venti e Trenta, con l’avvento del cinema sonoro, dominato all’inizio per lo più dalla canzone, il personaggio sordo viene eliminato o ridotto a ruoli secondari (per esempio in Number 17, 1932, di A. Hitchcock, o in Chéri Bibi, 1937, di L. Mathot) e si devono attendere gli anni Quaranta per vedergli assumere un ruolo centrale. Tuttavia, esso rimane più che altro una figura dell’estraneità ed è assimilato al mondo dei deboli che devono difendere la propria integrità (Johnny Belinda, 1948, di J. Negulesco), oppure, in altri casi, la sordità è vista – soprattutto nel melodramma e fino a tempi recenti – come pura infermità (Mandy, la piccola sordomuta, 1952, di A. Mackendrick; Höenfeuer/L’âme soeur, 1985, di F.M. Murer; Addio Mister Holland, 1995, di S. Herek). A questi film si possono inoltre aggiungere quelli appartenenti al genere biografico. Oltre alla Helen Keller di Anna dei miracoli, altre grandi figure cinematografiche di sordi sono comparse nei film su Beethoven e Goya, ma anche su Edison (colpito da sordità parziale), sull’attore “dai mille volti” Lon Chaney (figlio di genitori sordomuti) e perfino sull’inventore del telefono Bell (sposato con una giovane non udente, ma accanito avversario della lingua dei segni). I titoli più significativi del genere sono però forse L’abbé L’Epée (1982/89) girato dal regista sordo M. Rouvière con una troupe di non udenti , e i due film televisivi sul fotografo giapponese Koji Inoue (1918-1993), Regardez-moi, je vous regarde: Koji Inoue, photographe sourd (1996) e Koji Inoue, phographe au-delà des signes (1999), entrambi di Brigitte Lemaine. Con risultati alterni, si può constatare che il cinema si è aperto al tema della sordità e alla partecipazione di attori sordi soprattutto a partire dagli anni Ottanta, nel quadro di un’evoluzione generale delle mentalità in relazione al riconoscimento delle minoranze, anche se moltissimo resta ancora da fare in questo senso .
In particolare, un varco verso il mondo della sordità e del linguaggio gestuale (è da notare che i principi del Congresso di Milano vengono a decadere verso la metà degli anni Settanta) si apre con Figli di un dio minore, a cui seguono altri film anche molto diversi tra loro, come Quattro matrimoni e un funerale (M. Newell, 1993), Ridicule (P. Leconte, 1995), Le cercle parfait o La lunga vita di Marianna Ucria. Sembra tuttavia che il luogo privilegiato in cui questo mondo si dispiega in tutta la sua portata sia quello del documentario. In particolare, il già citato film di N. Philibert Le pays des sourds (1992) , che ha circolato in molti festival internazionali (Belfort, Locarno, Firenze), segna una tappa fondamentale, preceduta da altri documentari meno noti, quali Les gestes du silence di H. Storck (1962), Les enfants du silence di M. Brault (1962) o De Nieuw Ijstitjd (1974) di J. Van Der Keuken, e seguita dagli importanti Sourds à l’image, che riprende le testimonianze di artisti colpiti da sordità e Tanz der Hände (1997), dei due cineasti non udenti Ph. Danzer e P. Hemmi, che si concentra sull’importanza della lingua dei segni. Le pays des sourds pone subito (come è evidente fin dal titolo) la questione della sordità come “nazionalità”. L’idea di una comunità che combatte per salvaguardare la propria diversità attraverso la lingua dei segni è il tema portante del film, articolato come un viaggio attraverso un’ampia casistica di testimonianze. Ma è importante sottolineare che il documentarista francese pone continuamente udenti e non udenti sullo stesso piano, spesso scambiandone le posizioni: vediamo non udenti che apprendono il metodo oralista e udenti che apprendono, con enorme difficoltà, la lingua dei segni. Il tema della rivendicazione dell’identità non abbandona mai il percorso del film, che insiste sulla fierezza di alcuni sordi e mostra la sofferenza ingiusta di altri (per esempio quella derivata dal periodo di reclusione forzata di una donna), le difficoltà nell’insegnamento, l’importanza del senso della vista (“per ascoltare, guardo”, afferma il piccolo Florent), i problemi della vita quotidiana (la ricerca di un alloggio da parte di una coppia di sordi), le situazioni quasi comiche che talvolta si possono creare nell’interazione (il matrimonio di due sordi celebrato da un prete udente). Parafrasando Jean-Claude Poulain, l’insegnante protagonista, che conclude il film dicendo che un segno è come un passaporto, si può certamente pensare che con Le pays des sourds la sordità ha trovato il proprio passaporto (e la propria identità) nel mondo del cinema, tanto più che il documentario è stato distribuito con sottotitoli sia per il pubblico sordo che per il pubblico udente (molte scene sono nella lingua francese dei segni), agendo in questo modo concretamente sulla ricezione e sul processo di riconoscimento della lingua gestuale, attualmente ancora in atto.
(*) Laura Vichi svolge attività di ricerca presso l’Università di Bologna. Socia fondatrice dell’Associazione Home Movies, ha pubblicato i saggi Jean Epstien (Milano, Il Castoro, 2003) e Henri Storck. De l’avant-garde au documentaire social (Crisnée, Yellow Now, 2002).
Fonte: accaparlante.it Hp2003 n.3
nw065 (2006)


Newsletter della Storia dei Sordi n.65 del 30 giugno 2006

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