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Parlare con le mani, ascoltare con gli occhi. La storia di Pino Roveredo (Newsletter della Storia dei Sordi n. 269 del 15 giugno 2007)

Parlare con le mani, ascoltare con gli occhi. La storia di Pino Roveredo. Intervista allo scrittore triestino, figlio di genitori sordomuti, che ha conosciuto in passato il manicomio, il carcere, l’alcolismo. A rinascere ogni volta lo ha aiutato la scrittura, fino ad aggiudicarsi il premio Campiello
È una storia, direbbe Battisti, di discese ardite e di altrettante risalite. Pino Roveredo, triestino classe 1954, ha conosciuto in passato il manicomio, il carcere, l’alcolismo. A rinascere ogni volta lo ha aiutato la scrittura, “la voce intima – spiega – che può trovare il coraggio di scrivere nella disperazione e convincersi che nessuno è irrecuperabile”. Con i racconti delicati, crudi e poetici del suo libro “Mandami a dire” (edizioni Bompiani) ha vinto nel 2005 il prestigioso premio Campiello, narrando storie di emarginati e “ultimi in classifica”. E deve il dono di scrivere al fatto di essere figlio di genitori sordomuti: lo ricorda anche in questa intervista, pubblicata dalla rivista “Effeta” della Fondazione Gualandi di Bologna.

Roveredo, perché questa esperienza è stata così importante?
“Ho la fortuna di aver conosciuto il silenzio prima del rumore. Per anni, con papà e mamma, ho parlato il linguaggio dei gesti. E forse devo a questo un certo mio modo di scrivere, di togliere e aggiungere alle frasi, di tagliare i verbi. Nell’abbraccio infinito del silenzio, ho imparato che comunicare con i gesti richiede un’esplosione di fantasia per capirsi, distinguere. Ci vogliono anche molto rispetto e attenzione, come ho scritto nel primo racconto del mio libro, per parlare con le mani e ascoltare con gli occhi. E non si può mentire: perché la distrazione del destino che ha tolto ai sordi un senso, ne agevola altri. Me ne sono accorto fin da piccolo. Era inutile provare a imbrogliare i miei genitori: se recitavo, mi scoprivano subito. Mia madre, poi, aveva una sua capacità di invenzione tutta speciale”.

Quale?
“Guardava molto la televisione, film e sceneggiati. Non poteva sentire i dialoghi, ma dopo ne ricostruiva le trame, le sconvolgeva a suo modo, me le rinarrava a gesti con grande creatività. Mi ha lasciato questa abitudine: ancora oggi, a volte, se guardo un telefilm tolgo l’audio e mi reinvento la storia”.

E di suo padre che ricordo ha?
“Per lui, calzolaio, era un gran vanto che io sapessi scrivere. Ma soprattutto che sapessi cantare. Mi portava in osteria, io intonavo a gran voce ? Ciao ciao bambina’ di Modugno per gli avventori del locale. Ed era una festa: mio padre incassava in compenso abbondanti bicchieri di vino, io un po’ di monete”.

Dopo questa infanzia tante esperienze difficili, tra cui il carcere e la dipendenza dall’alcol. Una vita tra gli “ultimi” della società, e poi il successo come scrittore…
“Per carità. Degli ultimi mi sento sempre parte integrante. Non vorrei per tutta la vita diventare ? primo’ in qualcosa: dopo, non rimane più spazio per niente. La grande gioia del Campiello vale per me un penultimo posto. Lo sa? Da mio padre ho ereditato anche un grande amore per il ciclismo: ma la mia passione sono i gregari, non i campioni. Su questo ho scritto anche un racconto, ? Il maiale col fiocco’. L’ho dedicato ai miei figli, con l’augurio di essere qualche volta maglie nere, senza l’ansia di diventare a tutti i costi primi in classifica. È la brutta ansia di questa nostra società che rifiuta di conoscere la sconfitta, e insegna ai ragazzi a viverla come un dramma. Senza capire che, invece, è un passaggio della vita”.

Per questo lei lavora come operatore di strada per i giovani tossicodipendenti?
“È il mio modo di continuare a salvarmi, provando ad aiutare altri a salvarsi. È un modo anche egoista di ricordarmi chi sono stato e posso tornare ad essere. Il mio percorso passato mi dà più facilità di approccio con questi ragazzi: li incontro per strada e mi sentono come uno di loro, uno che ha vissuto le loro situazioni”.

Di tossicodipendenze, oggi, si parla meno che in passato.
“È perché il disagio, nella nostra società, corre con la velocità della notizia. Oggi Simone Cristicchi vince a Sanremo con una canzone che parla di matti, e di colpo tutti scoprono il disagio dei malati psichiatrici. Domani si girerà pagina e sarà tutto dimenticato”.

Si può insegnare ai più giovani un modo diverso di pensare, che non abbia il tabù della sconfitta?
Si può insegnare loro a portare rispetto per i più deboli. Per qualsiasi debolezza. Io vado spesso nelle scuole, medie e superiori, perché ? Mandami a dire’ è stato adottato come testo di lettura in più di duecento istituti. Mi faccio accompagnare a volte da Marita, una ragazza sordomuta di Pordenone: io leggo brani del libro, lei traduce con il linguaggio dei gesti. È anche un modo per far capire a chi non è sordo la pazienza degli occhi, l’attenzione che ci vuole nel dialogo, nell’ascoltare l’altro senza interrompere. È un’educazione che oggi si sta perdendo. Troppo spesso guardiamo senza vedere, e ascoltiamo senza sentire”.
Autore dell’intervista: Luca Baldazzi Fonte: Superabile.it (11 giugno 2007) – nw269


Newsletter della Storia dei Sordi n. 269 del 15 giugno 2007

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