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Sordi per scelta? (Newsletter della Storia dei Sordi n.334 del 12 ottobre 2007)

L’eugenetica, la selezione di caratteri volti a migliorare la specie, è da sempre oggetto di polemiche e dibattiti. Forse, a livello personale, il desiderio di migliorarsi, attraverso figli perfetti, che soddisfino tutte le nostre ambizioni è insito nell’uomo. O forse no. O forse, più semplicemente, le ambizioni cambiano molto, da persona a persona. Per Sharon Duchesneau e la sua compagna Candy l’aspirazione era di avere un figlio sordo. Essendo anch’esse sorde, forse, un loro figlio sarebbe stato sordo. O forse no. Di sicuro, senza la fecondazione artificiale avrebbero avuto scarse possibilità di procreare, essendo Sharon e Candy due donne. Due professioniste americane omosessuali e sorde che volevano un figlio, preferibilmente sordo. Oggi, questo è permesso dalla fecondazione artificiale, che, insieme a mille opportunità, porta con sé mille e più interrogativi etici (ma anche legali e medici).

Un dono speciale?
È giusto volere un figlio sordo e ottenerlo grazie alla fecondazione artificiale, selezionando un donatore sordo? Secondo la maggior parte degli udenti no. E infatti la notizia ha fatto il giro del mondo, con i mass media che gridavano allo scandalo. Anche secondo le banche del seme la risposta è no: la sordità è un elemento che fa scartare a priori un possibile donatore. Secondo Sharon e Candy era giusto, e così hanno chiesto a un loro amico sordo, di famiglia sorda, di fare da padre ai loro bambini. Sì, perché il bambino che negli ultimi giorni ha fatto tanta notizia è il secondo nato dall’unione dei geni di Sharon e dell’amico sordo. La prima si chiama Jehanne ed è nata cinque anni fa, forse con meno clamore, ma con lo stesso identico procedimento e con il medesimo desiderio: quello di avere maggiori chanche di trasmettere la sordità al nascituro: «Un figlio udente sarebbe un dono. Uno sordo sarebbe un dono speciale», queste le parole che spiegano tutto. E niente.

Perché la sordità è vista come un dono? Un dono per sé o per il proprio figlio. È un atto di estremo egoismo o di amore estremo? Queste alcune delle domande che ci si pone, o ci si dovrebbe porre, di fronte a una notizia così al di fuori dei nostri schemi. La sordità è un handicap. Tutti pregano per avere figli sani forti e intelligenti. Perché c’è chi prega per avere un figlio cui è negato il mondo dei suoni? In effetti, questo evento fa emergere un’incomprensione di fondo tra sordi e udenti. Per questi ultimi l’assenza di udito costituisce una mancanza, un qualcosa che possibilmente va curato, eliminato dalla società. Per molte persone sorde non è così. Soprattutto, chi è sordo dalla nascita si sente diverso, sì, ma non impoverito da questa condizione. «A chi dice che scegliere di far nascere apposta un bambino sordo sia infliggergli deliberatamente una menomazione, posso rispondere che le due mamme, come anche i due figli, sono sordi dalla nascita, quindi non hanno mai perso alcunché: per perdere una cosa bisogna prima averla avuta», fa notare Barbara (32 anni), nata sorda in una famiglia di udenti. «Ed è inutile che un non-sordo si sforzi di immaginarsi sordo: quello che immaginerà sarà l’idea di diventare sordo, che è molto diverso dall’essere sordi sin dalla nascita».

Sentirsi a casa
Un discorso che potrebbe essere usato anche in caso si altre sindromi? Forse. «In definitiva la sordità non minaccia l’esistenza. È difficile da credere che un genitore scelga coscientemente di avere un bambino con la fibrosi cistica, o la sindrome di Tay-Sachs o una qualsiasi altra malattia ereditabile. È difficile credere che un qualsiasi genitore scelga di avere un bambino con malattie debilitanti, anche se non mortali, come il diabete, o altre condizioni. Io so che ci sono comunità di gente con la sindrome di Tourette (in Canada?), dove le coppie hanno bambini che potrebbero ereditare la sindrome (e lo sanno). Ma la sindrome di Tourette non è debilitante o mortale, per cui potrebbe esserci una qualche scala di scelta», spiega Carol, sorda figlia di sordi, professore alla University of California di San Diego.

E chi è in grado di stabilire una simile scala? Siamo veramente capaci di fissare dei limiti? Chi si sente all’altezza di intromettersi in una simile scelta? Bisogna ricordare che la comunità dei sordi, anzi le comunità, si distinguono da altre comunità perché hanno ciascuna una propria lingua, una propria poesia, in definitiva una propria cultura. È per questo che molte persone sorde dalla nascita riescono a percepire la ricchezza di questa loro condizione, che le inserisce all’interno di una comunità vivace e interessante, e non possono invece comprendere fino a pieno la mancanza di qualcosa che non hanno mai conosciuto. Un discorso che è particolarmente vero negli Stati Uniti, soprattutto per due persone che vivono a Bethesda, a due passi da Washington e quindi dal Gallaudet, l’unica università per sordi esistente. Il luogo ove Sharon imparò per la prima volta la lingua dei segni, dopo una vita passata a sforzarsi di parlare e leggere le labbra. Un’esperienza che il neurologo e scrittore Oliver Sacks, nel suo libro Vedere voci, descrive come un ritorno a casa. Forse è anche per questo che alcuni sordi desiderano figli sordi, per farli sentire a casa.

La sordità non è un handicap
«I genitori vogliono bambini che somiglino a loro. Vogliono figli che li somiglino e che possano interagire con loro negli stessi termini», interviene ancora Carol. «I genitori sordi sono preoccupati di essere alienati dai loro bambini udenti, e desiderano un bambino che li somigli. Ho amici sordi che sperano di non avere bambini sordi e amici sordi che sperano di averli. Alcuni provengono da famiglie sorde, e comunque sperano di non avere bambini sordi. Alcuni provengono da famiglie udenti e sperano di avere figli sordi. È una scelta molto personale. La questione è resa più interessante dal fatto che si tratta di due donne che prendono la decisione di avere un bambino sordo», continua la docente americana. «Tutti i genitori che si rivolgono a una banca del seme compiono delle scelte. Decidono sulla base dell’altezza, dell’intelligenza, dell’aspetto fisico, del background: “questo è uno studente di medicina, deve essere intelligente e socievole, questo è quello che voglio per il mio bambino”. In cosa differiscono queste due donne sorde? Il fatto di sottoporsi all’inseminazione artificiale, di scegliere un donatore piuttosto che un partner, per definizione, invita a una scelta cosciente: il contesto incoraggia a scegliere un’opzione piuttosto che un’altra. Perché le banche del seme offrono una simile scelta? Perché non selezionano semplicemente quelli che ritengono essere i migliori donatori: altezza media, capelli castani, buona intelligenza, privi di difetti ereditari, ecc.? Perché i genitori vogliono scegliere i donatori con caratteristiche simili alle loro: simile colore di capelli, simile altezza e così via?».

Una scelta che probabilmente, da parte di alcuni sordi, nasconde anche la paura di non essere genitori adeguati per bambini udenti. O per lo meno di essere genitori migliori per bambini sordi: «Conosco il senso della sordità e so come affrontarlo nella vita quotidiana», dice Serena, sorda, figlia di sordi. Che però non è favorevole alla fecondazione artificiale: «Preferirei l’adozione e, appunto, sceglierei di adottare un bambino sordo”, aggiunge. “Io ad esempio sono stata felicissima e lo sono tutt’ora di avere i genitori sordi ed è ovvio che voglia trasmettere la mia sensazione al figlio sordo. Che male c’è?», chiede Anna, anche lei sorda. «Per me la sordità non è un handicap, è soltanto un problema sociale. In Italia, per esempio, le strutture sociali a favore dei sordi sono pessime, mentre negli altri paesi i sordi vivono benissimo e alla “pari” con il mondo degli udenti. Allora la scelta dipende sempre dalla situazione sociale ove si vive. L’America per i sordi è uno dei migliori paesi come servizio, informazioni, comunicazioni, ecc. Ed ecco perché queste due americane hanno scelto di avere un figlio sordo, perché sanno benissimo di vivere “bene”».

Fonte: magazine.enel.it  – nw234


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