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Identificazione e conquista dell’identità nel sordo

Se nella società d’oggi non si riflette abbastanza sul difficile processo di conquista d’identità del sordo nel corso della vita, riferendoci al periodo focale dell’adolescenza e giovinezza, dipendente, secondo noi, a due principali motivi.

Il primo quando si afferma: «Il sordo non deve essere classificato secondo una specifica identità perché non utilizza né sperimenta, quotidianamente, una lingua diversa rispetto alle persone che interagiscono nella comunità e, pertanto, non sviluppa una lingua e cultura proprie.»

Il secondo motivo è prettamente psicologico nell’affermazione: «Il sordo, poiché vive occasionalmente nella microsocietà dei simili, la stessa non può essere considerata vera e propria comunità; di fatto non acquisisce un’identità cosciente, nella quale si riconosca e, con coerenza, sviluppi l’Io evolvendosi al Noi della comunità di sordi.»

Ci proponiamo di rivedere queste due tesi sostenendo che, l’identità del sordo, esiste e che, se oggi non si manifesta completamente dipende dal fatto che è frenata dalla società di maggioranza, sospingendo il sordo ad imitare l’identità dell’udente.

Portiamo l’attenzione sul processo di formazione dell’identità in generale.

Presentiamo qui di seguito (fig. 1) una sintesi degli eventi esterni (sociali) e interni (psichici) attraverso cui si sviluppa e matura la personalità.

L’esperienza conferma che la costruzione dell’identità personale e culturale dipende, nel soggetto sordo, da  molteplici eventi che si manifestano e agiscono durante lo sviluppo dell’Io.

Se pretendiamo che il sordo di nascita o prelocutorio sviluppi un’identità simile a quella del normoudente ne inibiamo le potenzialità che potrebbero essere sviluppate per accedere ad un’identità specifica, grazie alla lingua visuomanuale e ad una cultura fondata proprio sull’interrelazione, con questa lingua, con le persone e l’ambiente propri secondo un’ esperienza esistenziale dettata dalla sordità.

Esponiamo qui di seguito alcune considerazioni.

1. La società d’oggi convoglia il sordo verso una falsa o inadeguata identità che, a lungo termine, causerà nevrosi e squilibro psichico nella misura in cui, egli, subirà frustrazioni sia a livello comunicativo che affettivo perché è pressato dalla  realtà che gli è imposta, senza essere compreso  nelle sue esigenze peculiari comunicative.

2. L’Io del sordo è inibito o/e sacrificato:
a. alla formazione del Super-io secondo il proprio processo di sviluppo;
b. allo essere altro, secondo un modello ignoto proposto dalla società udente che non può conoscere e sperimentare direttamente restando così allo stato enfatico;
c. alla funzione dell’udente, piuttosto che maturare una interrelazione col simile nell’àmbito di una lingua e cultura specifiche;
d. a divenire soggetto; finirà subalterno, non svilupperà una coscienza critica della società, delle istituzioni, dei diritti e dei doveri di cittadino.

È evidente che la società non predispone il sordo per uno sviluppo adeguato per accedere ai bisogni fondamentali di crescita e maturazione di un Io stabile. La pretesa di qualche sostenitore d’integrazione coatta che il bambino sordo può identificarsi nell’udente porta ad  accettare un’identità ingannevole:
– per mancanza di un modello da imitare, vale a dire l’autenticità d’essere sordo;
– per i conflitti psichici prima implosivi poi sempre più evidenti, soprattutto nell’età dell’adolescenza verso i genitori;
– per manchevolezza e intelligibilità semantica delle conoscenze oggettive e soggettive, spesso non rispondono ai bisogni affettivi né all’esperienza percettiva.

3. Noi sordi non vogliamo obbedire né essere influenzati da un modello di Io condizionato dalla comunità sonoro-acustica di maggioranza perché – se fosse così – dovremmo rinunciare, già all’inizio, del nostro essere-divenire. La nostra identità è un plus ultra proveniente dalla coscienza d’esistere in quel che siamo, dal momento che viviamo e sperimentiamo il Silenzio: un Silenzio con la S maiuscola, realtà di esperienza nel vissuto sociale e intrinseco, processo di identificazione che diventa armistizio, “concordia” con la stessa disabilità uditiva quando l’Io,  padrone e signore di questa fenomenologia sensoriale generata dal Silenzio,  dà vita all’identità inconfondibile della persona sorda.

È questo continuo confronto con gli altri sordi, col mondo delle loro esperienze a generare il desiderio di vivere, un modus vivendi che abbraccia, non solo la  piccola comunità silenziosa, ma che si estende alla macrosocietà nella visione di una società pensata visivamente e perciò migliore, o più completa di quella sonoroacustica.

4. Nella società udente lo sviluppo psichico del sordo non ha un modello guida perché gli sono preclusi gli stimoli percettivi e le interrelazioni che contribuiscono alla formazione della personalità. Ciò è nascosto col pretesto degli udenti, e la prosopopea di alcuni sordi per mascherare i loro limiti, che solo “in mezzo agli udenti” il sordo acquisirà la normalità.

Pertanto è opportuno prendere atto dell’importanza dei processi percettivi visivi e tattili che sono le basi dello sviluppo psicolinguistico e cognitivo affinché il sordo maturi le potenzialità che lo condurranno  – come abbiamo affermato –  all’identità specifica  non rifiutando le relazioni con gli altri strutturanti un’identità legata ad esperienze percettive differenziate, vale a dire due “diversità” che si incontrano e si integrano restando, ciascuna, nella propria. Cosicché per il sordo abbiamo:
– un Io che discorda e cresca;
– un Io non più soffocato dal coattismo di una lingua e cultura “altrui”;
– un Io non più vulnerabile e/o dissociato, ma forte e unitario nell’accettare la comunità dei sordi, che diventa prerogativa e stimolo per la comunità udente;
– un Io che non si annulli nella società di maggioranza, in cui gli è fatto credere che è  “normale” perché parla una lingua verbale con la bocca e ascolta codici sonoroverbali con le orecchie;
– un Io che non imiti ciò che esiste nella società sonoroacustica degli udenti, adottando la scorciatoia di un mero processo psittacistico, stereotipato; compiendo lo sforzo, invece, di stimolare potenzialità percettive visive e l’attenzione cinesica quale primaria via ideativa di potenziamento dell’identità sino addirittura alla produzione artistica (pittura, poesia visiva, teatro, narrativa, ecc.).

5. Erikson (1974) afferma che l’identità è “uno sviluppo che dura tutta la vita”. Nel nostro caso se non troviamo nel bambino sordo l’identificazione con l’adulto sordo, lo sviluppo non avrà nemmeno inizio. Molti psicologi e pedagogisti non permettono (non dico favoriscono!) che il piccolo sordo si identifichi con l’adulto. Ciò, a nostro parere, è un madornale errore educativo e pedagogico. Possiamo giustificare i genitori che “sognano” un’ipotetica normalità, rinviando sine die il confronto con l’adulto, e accedere ad informazioni «dirette» per non sbagliare, o accertarsi vis a vis come potrà essere il figlio domani. Ma non possiamo perdonare coloro che si qualificano esperti e dichiarano la lingua e la cultura dei sordi inesistenti, sconsigliando alle giovani generazioni di sordi il contatto del confronto, l’accesso nella comunità silente.

6. Il problema principale è allora costruire il ponte tra l‘Io (soggettivo) e il sociale. La maggior parte degli studiosi sostiene che l’Io del sordo deve identificarsi, trovare accoglienza, nella comunità udente. Non sono d’accordo perché – a mio parere – consiste di un atto autoritario che non può essere psicologicamente tollerato. Cooley (1922) ha approfondito questo tema, introducendo l’immagine efficace del “Sé specchio” per richiamare l’attenzione sulla circostanza che l’individuo non potrà mai concepire un’idea di sé senza riferimento ai propri simili. Riconosco giusto l’affermazione che il sordo deve rifarsi agli altri; ma quando penso agli altri, io penso ai sordi, alla comunità dei sordi, perché è in essa che si svolge la molteplicità delle relazioni sociali e psicologiche nelle quali sordo costituisce e costruisce la personalità.

7. Voglio porre una domanda a chi rifiuta l’identificazione di un “modello d’identità” specifico della persona sorda. Com’è noto Freud rivolge la sua attenzione ai processi inconsci d’assimilazione di oggetti e di persone nel periodo infantile ed Erikson (1968), studiando tal età, afferma che l’identità «comincia dove termina l’utilità dell’identificazione e nasce dal ripudio selettivo e dalla reciproca assimilazione delle identificazioni infantili e del loro assorbimento in una nuova configurazione». Nel nostro caso, per quanto riguarda l’identificazione del bambino sordo, egli non passa mai dal processo simbolico alla discriminazione, perché non è sostenuto dal processo linguistico e selettivo di interrelazione sul modello udente. Potrebbe, certe volte, anche avvenire ma non con l’efficacia presente nel bambino che ode. Il processo psicocognitivo nel bambino sordo non è sufficientemente valorizzato seguendo o inducendo il processo di Identità conforme alla percezione del coetaneo udente o dell’adulto, che stabilisce il rapporto col mondo circostante fondato sulla concatenazione verbale.

8. L’errore è nel pregiudizio di valutare i “gruppi simili” agenti fuori delle norme o della normalizzazione, senza un’identità intrinseca. Invece, sono gruppi attivi che sperimentano compiutamente il “gioco complessivo di immagini reciproche”. E’ in questa situazione vitale e corretta che l’adolescente sordo è percepito (sapendo di esserlo) dalle persone che sperimentano la medesima disabilità sensoriale. E’ il primo approccio di un percorso interessante verso la scoperta dell’identità che si sviluppa a poco a poco nelle interazioni connesse a situazioni di ogni giorno. Privare il sordo di questa realtà vuol dire isolarlo da quel che Erikson chiama «identità dell’Io» e impedirgli di acquisire il concetto di sé nell’uguale, dell’insieme «di processi psicologici» e «una struttura cognitiva» (Gergen, 1979), nella quale collocare se stesso.  Proporgli un’identità di udente si rivelerebbe stereotipata, autoritaria. Berger e Luckmann (1974) fanno notare che ci sono troppi “tipi di identità” prodotti da specifiche strutture sociali. Se il sordo è “tipizzato” a seconda dell’identità dell’udente, questo non significa che raggiungerà l’integrazione nella società; al contrario, non maturando un Sé consapevole, finirà per precipitare con la sua nevrosi.

È urgente elaborare una teoria sociologica sull’identità del sordo, esigenza attuale e pressante perché gli otochirurghi fanno il loro mestiere con gli impianti cocleari, taluni sollecitando le famiglie all’imitazione degli udenti, considerandoli modelli di «espressione di normalità».

I sordi che hanno raggiunto un equilibrato sviluppo della personalità, coscienti della propria identità culturale e linguistica, dovrebbero diventare promotori di un progetto che stimoli e sostenga i simili ad acquisire l’identità propria di sordi, irrinunciabile  base d’inizio di accesso ad una nuova e migliore identificazione.

Renato Pigliacampo (*) nw014 – 22 gennaio 2013

Bibliografia essenziale
Berger, P. L., – Luckmann, T., La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1974.
Cooley, C. H., Hunan nature and social order, Scribner, New York 1922.
Erikson, E. H.,   Infanzia e società, Armando, Roma 1966.
Erikson, E. H., Gioventù e crisi d’identità,  Armando, Roma 1974.
Gergen K. J., “Il Sé fluido e il Sé rigido”, in Giovannini D., (a cura di),  Identità personale: teoria e ricerca,  Zanichelli, Bologna 1979.
Jacobson, E., Il Sé e il mondo oggettuale, Martinelli, Firenze 1974.
Martinelli, R., L’identità personale dell’adolescente,  La Nuova Italia, Firenze 1978.
Piaget, J., – Inhelder, R., Dalla logica del fanciullo alla logica dell’adolescente,  Giunti, Firenze 1961.
Palmonari, A, – Carugati, F., «Sviluppo dell’identità», in Battacchi, M., (a cura di),  Trattato enciclopedico di psicologia dell’età evolutiva,  Piccin, Padova 1988.
Pigliacampo, R., Lo Stato e la diversità, Armando, Roma 1983.
Pigliacampo, R., Sociopsicopedagogia del bambino sordo, Quattro Venti, Urbino 1991.
Pigliacampo, R., Handicappati e pregiudizi: assistenza-lavoro-sessualità, Armando, Roma 1994.
Pigliacampo R., Lettera a una logopedista, Edizioni Kappa, Roma 1996.
Pigliacampo, R., Lingua e linguaggio nel sordo, Armando, Roma 1998.
Scuola di Silenzio, Lettera ad una Ministro (e dintorni), Armando, Roma 2005.
Volterra, V., (a cura di), La comunicazione dei sordi. La lingua dei segni, Il Mulino, Bologna 2005, II edizione.

(*) Docente all’Università di Macerata. Il testo, sebbene elaborato, fa parte di una relazione tenuta in un convegno. Queste tematiche possono essere  approfondite su  R. Pigliacampo, Parole nel movimento. Psicolinguistica del sordo, Armando editore, Roma 2009.

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«Bisogna avere il coraggio di amare il Silenzio, scritto con la S maiuscola, perché dietro, tout-court,  c’è tutto un mondo di persone “meravigliosamente speciali”, vale a dire bambini e adulti che non possono udire intelligibilmente la parola tramite la percezione acustica. Nel corso dei secoli, a seconda dei momenti, sono stati indicati: sordomuti, sordi, sordastri, non udenti, maleudenti, anacusici, ipoacusici, audiolesi, deboli d’udito, duri d’orecchio, cofotici. Io li chiamo semplicemente persone del Silenzio, miei fratelli: e so che,  pronunciandone il nome, mi attribuisco il merito di far parte di quel mondo migliore, che procede con una marcia in più.» (Renato Pigliacampo da Pensieri e riflessioni sul Silenzio)
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“Storia dei Sordi. Di Tutto e di Tutti circa il mondo della Sordità”, ideato, fondato e diretto da Franco Zatini

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