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Brevi cenni sullo stato attuale dell’educazione dei sordomuti in Italia nel 1905

«Brevi cenni» di Arturo Maestri. Ero rimasto stupito e ammirato quando avevo letto il breve saggio “Considerazioni sull’art. 340 del Codice Civile”, redatto nel1882 da Arturo Maestri, “istruito nel Regio Istituto Sordo-muti di Milano”. Il nome di Maestri non l’avevo ancora trovato, eppure mi pareva inusuale, per quei tempi, il suo linguaggio di persona colta, essendo stato “allievo del Regio Istituto Sordomuti”, quindi divenuto sordo in età infantile, ma già ragionava e scriveva più e meglio di un letterato di fama.

Quest’altro volumetto, cm. 14×22 ha per titolo «Brevi cenni sullo stato attuale dell’educazione dei Sordomuti in Italia» e fu stampato nel 1905, ossia 23 anni dopo la pubblicazione delle sue considerazioni sull’art. 340 del Codice Civile. Il testo è composto di otto agili e arguti capitoli.
Nel prologo il Maestri ritiene che «le infinite disquisizioni scientifiche» fra i partigiani del metodo orale puro e quelli del metodo misto, dopo 25 anni dal Congresso di Milano che “con grande pompa” aveva sentenziato doversi insegnare la parola con la parola, gli stessi propugnatori del “metodo orale” avevano ora seri dubbi.

Nel primo capitolo
(Brevi cenni storici), l’autore costata che sordo è chi, «…per uno o centomila accidenti» è privo dell’udito e «… nei tempi di Sparta… veniva condannato ad essere gettato nel Taigete». Poi disquisisce su Aristotele e S. Agostino, secondo i quali, «… chi era nato senza udito era impedito a imparare le lettere e ad abbracciare la fede…», per cui criticava il santo in particolare «… questa è un po’ grossa e non me la posso mandare giù!», chiedendosi come siano vissuti i sordomuti da Gesù Cristo in poi, la storia non lo dice, e anche i santi li condannavano!
Solo verso il Medio Evo la scienza, «… lascia le pastoje di una metafisica trascendentale, per applicarsi al positivismo della natura». In Italia, ricorda Maestri, fu Gerolamo Cardano, primo fra tutti, a parlare con accenti di profonda convinzione e affetto dei sordomuti, affermando che «… pel sordomuto la scrittura può palesare il pensiero senza l’intermediario della parola».
Il buon seme gettato da Cardano ebbe però virtù sporadica e limitata.
Fu sul finire del secolo XVIII, fatti maturi i tempi, che apparvero «tre grandi apostoli in persona dell’abate De L’Epèe, di Ottavio Assarotti e di Samuele Heiniche», ognuno dei quali si diede a istruire un gran numero di sordomuti con un proprio metodo.

Nel secondo capitolo,
«Un inno ai gesti», l’autore che pure usa parlare a voce, afferma che «Il gesto è l’estrinsecazione dell’idea e rende tangibile il pensiero e gli interni moti impalpabili dell’anima, come la parola sensibilizza il pensiero e i sentimenti e la scrittura li materializza in modo stabile», e che «… a parità di condizioni psichiche, raggiungeva un egual grado di sapere il sordomuto istruito colla mimica, che quello educato mediante la parola …», per cui auspicava di «… fare qualche concessione ai gesti, adottando il sistema combinato, parola e gesti, come s’usava in America, onde  raggiungere l’acceleramento nella più estesa istruzione possibile».

Nel terzo capitolo,
«Una pagina di medicina», dove il Maestri, divenuto sordo per febbre tifoide in età infantile, pur ammirando gli sforzi dei medici, non ebbe mai la mania di «guarire dalla sordità» e invitava i genitori a mettersi il cuore in pace, suggerendo per chi non poteva udire: «La panacea universale è l’istruzione bene impartita … avremo sempre il fenomeno di chi, più o meno, eccelle sugli altri condiscepoli, ma ciò è dipendente dallo stato delle facoltà mentali, non già dal modo originario della sordità».

Capitolo quarto:
«Una calligrafia orale. Dell’integrazione», é un’analisi sulla pronuncia della voce, che allora chiamavano “calligrafia orale”, per leggere le parole dal movimento labiale. Evidentemente a quel tempo la logopedia era ai primi passi: infatti «… la facoltà dell’integrazione presuppone una sufficiente cognizione, e uso della patria lingua, senza di che, non vale parlare di integrazione».

Nel Capitolo Quinto,
«Delle professioni. Due parole di morale», il Maestri dice che i genitori degli alunni vorrebbero sapere “quale professione debbano dare al proprio figlio”, ma la questione era, per lui imbarazzante, ripensando che Gerolamo Cardano «…vaticinava nei sordomuti degli abili artisti» ma trecento anni dopo «… l’arte è una cosa tanto eccelsa che si eredita dalla natura e non si apprende», pertanto  il miglior consiglio, coi venti che allora spiravano, era di farne un diligente impiegato negli uffici, o un buon operaio nelle officine, previo un conveniente tirocinio nelle scuole professionali. Non altrettanto lungimirante, il Maestri si mostrava per lo studio universitario se scriveva al termine di quel capitolo: «… quanto alla laurea, visto che in Italia, per pletora di laureati, si verifica facilmente che un buon avvocato prenda una laurea suppletiva in veterinaria, e un medico chirurgo concorra al posto  di ufficiale postale, non facciamone nulla e accontentiamoci di frequentare le scuole professionali ed i commerci».

Nel Capitolo Sesto:
«Delle necessità di una nuova cattedra», Maestri prospetta un insegnante “di allegria” , non concepisce che i sordomuti siano detti “poveri sventurati”, infondendo amarezza ai diretti interessati, e si scaglia contro «… certe nullità di rettori, gonfi come palloni per magnificare  la propria opera educatrice … che hanno il mal vezzo di qualificare il sordomuto non istruito come un selvaggio …». Fa presente che i sordomuti hanno saputo organizzarsi in”società di mutuo soccorso”, e ritiene che se «il pane dell’istruzione» non viene dato a tanti sordomuti, la colpa è dei governanti.

Con «Un po’ di statistiche», nel capitolo Settimo,
evidenzia che fra i 15.000 sordo-muti  allora recensiti in Italia, erano circa 4.000 quelli in età di essere ammessi alla scuola, ma solo la metà quelli  effettivamente frequentanti, poiché per i sordomuti l’istruzione, in Italia, non era obbligatoria, come lo era già in altre nazioni d’Europa, mentre negli USA «…non è ammissibile l’esistenza di un solo sordomuto privo d’istruzione».
L’organizzazione – continua Arturo Maestri – è la leva potente che atterra i monti e appiana le vie – per cui invita: «Voi sopratutti, o Milanesi, che per più titoli e per importanza della vostra associazione siete all’avanguardia…dovete far valere i diritti di tutti al pane dell’istruzione…, perché una buona causa, è una causa vinta!».

Nella parte finale, capitolo ottavo,
il Maestri afferma di avere scritto quei Brevi cenni «… in omaggio a quel precetto che impone di amare il proprio simile come sé stesso». 
E ci è ben riuscito!
Marco Lue



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«La storia è testimonio dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita» (Cicerone)

«La storia non è utile perché in essa si legge il passato, ma perché vi si legge l’avvenire» (M.D’Azeglio)

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