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Intervista a Enrico Dolza

Istituto dei Sordi di Torino: 200 anni di storia. Intervista a Enrico Dolza
«Bisogna ricordare il “passato” per costruire bene il “futuro”» (V. Ieralla)

Dottore di ricerca in Pedagogia Speciale presso l’Università di Torino, Enrico Dolza è anche educatore professionale. Lavora dal 1997 presso l’Istituto dei Sordi di Torino, di cui è oggi Direttore. Professore a contratto di Pedagogia Speciale e nei corsi di specializzazione per gli insegnanti di sostegno per l’Università di Torino. Formatore nei corsi per Assistenti alla Comunicazione e per interpreti di Lingua dei Segni. Autore di numerosi articoli e testi divulgativi sulla sordità e sul linguaggio.

1. Che cosa studia la Pedagogia Speciale?
È la branca della pedagogia che si occupa dell’educazione delle persone con disabilità. È pur vero che oggi tende ad ampliare il proprio campo a tutta la diversità e in questo senso vede anche gradualmente modificarsi il suo stesso nome in pedagogia dell’inclusione. D’altronde nel corso del tempo la disciplina ha spesso cambiato nome, rispecchiando le ideologie dominanti del momento. Ad esempio tra ‘800 e ‘900 cominciò a essere chiamata pedagogia emendatrice, perché in quell’epoca si creò l’immagine della persona con disabilità come malato e pertanto compito della pedagogia era emendarlo, curarlo, ripararlo per restituirlo aggiustato alla società. Oggi evidentemente la pedagogia speciale è cambiata e ha spostato il suo sguardo all’ambiente, di cui propone una ristrutturazione in senso inclusivo. Oggi tale disciplina guarda quindi anche molto a come cambiare la società, piuttosto che a come riparare le persone.

2. Qual è stato l’argomento oggetto della tua tesi di dottorato?
Ho trattato il tema della presenza nella nostra società di persone sorde con background migratori, trattando l’argomento con uno sguardo al rischio per queste persone di multiple discrimination. Le discriminazioni duali e multiple, ben descritte dalle direttive europee, sono infatti molto pericolose e si insinuano con grande efficacia negativa in tutti gli ambiti delle nostre società, compresi quelli istituzionali. Per questo credo debbano essere riconosciute e aggredite.

3. Quali sono i tuoi interessi di ricerca?
Ho tanti interessi e curiosità, ma certamente i due filoni che più mi appassionano sono l’accessibilità ai musei e luoghi della cultura e le shared signed languages, cioè quelle lingue dei segni di comunità rurali che emergono spontaneamente in contesti in cui la sordità genetica compare in misura massiccia e che le rende lingue di tutti e non solo delle persone sorde.

4. Che ricordi hai della tua esperienza di Assistente di Convitto e di docente presso l’Istituto dei Sordi di Torino?

Ho cominciato molto giovane e inesperto, di tutto. Però ho un bel ricordo e credo che proprio in quegli anni io abbia sviluppato la mia passione per la LIS, che di fatto ho appreso per immersione. Ho visto il convitto per sordi dell’Istituto di Torino, ormai alla fine della sua storia plurisecolare, ma credo di averne comunque compreso alcuni aspetti. I ragazzi erano abbastanza grandi, tutti segnanti. Lo spirito di gruppo molto forte, erano una specie di grande famiglia: andavano a scuola, mangiavano e giocavano insieme, con un ritmo scandito da riti in parte religiosi (c’erano ancora suore e sacerdoti allora) e in parte laici e goliardici. Penso di aver visto una delle ultime espressioni viventi delle scuole post Congresso di Milano: insegnanti e personale tutto formalmente oralista puro (Enrico, non si “gestisce” coi sordi, ricorda! Mi sentivo spesso ripetere dalle suore). In realtà la vera lingua era quella dei segni, in tutti i momenti di vita reale: gli intervalli, il pranzo, i saluti, gli auguri, persino la messa e le preghiere erano recitate in segni, da quegli stessi che proibivano poi di usarli in classe. L’oralismo era un dogma, ma non la realtà. Bisognava professarlo, ma poi nessuno lo applicava.

5. Pensi che la chiusura delle scuole speciali abbia rappresentato un passo in avanti per l’inclusione degli studenti sordi?
Penso che gli istituti così come erano non potevano che chiudere, e infatti ho attivamente contribuito a chiudere le scuole di quello che oggi dirigo. Tuttavia ho sempre pensato che sia necessario ricreare dei luoghi di aggregazione, anche educativa, per le persone sorde che usano la LIS come prima lingua. Dei santuari in cui si sentano a casa loro, in cui possano essere la maggioranza e non la minoranza, in cui la LIS sia compresa da tutti e sia un po’ disabile chi non la conosce. Perché se vogliamo che la comunità dei sordi viva e fiorisca, deve avere dei luoghi. Tutti i gruppi minoritari li hanno: servono anche a rinforzare l’identità e a promuoverla verso l’esterno.

6. Di cosa ti occupi in quanto Direttore dell’Istituto dei Sordi di Torino?
Di un po’ di tutto. Coordino dei servizi e lavoro coi referenti dei vari dipartimenti. Mi occupo di pensare a nuovi servizi e di cercare le risorse per realizzarli. Lavoro anche direttamente su alcuni progetti e talvolta torno a fare l’educatore. In pratica, visto che l’Istituto ha più di 200 anni di vita, cerco di interessarmi attivamente a non farlo chiudere proprio durante la mia direzione, pensa che figuraccia!

7. Quali sono i progetti internazionali in cui sei coinvolto?
Ho iniziato con il primo progetto europeo nel 2007, un Leonardo da Vinci. Ho sempre creduto molto nella necessità di internazionalizzazione dell’Istituto e in realtà penso che questo andrebbe fatto per tutti gli enti e le amministrazioni del nostro Paese. Proiettarsi verso l’esterno significa innovare, confrontarsi, crescere. Sono anche occasioni di reddito e di lavoro retribuito per giovani ricercatori, in un paese come il nostro in cui molti laureati sono costretti a emigrare. Oggi il nostro dipartimento internazionale occupa 4 persone a tempo pieno e coinvolge almeno 10-15 colleghi all’anno con incarichi ad hoc, più un numero imprecisato di studenti per le mobilità. Lavoriamo prevalentemente con Erasmus +, ma anche con Horizon2020, Cosme ed altri programmi. Io di solito sono impegnato nella fase di progettazione e submission, poi in base ai progetti vinti rimango coinvolto per parte dell’implementazione di un paio per volta, di norma quelli che hanno a che fare con la lingua dei segni o con l’accessibilità culturale.

8. Come viene gestito il servizio di Assistenza alla Comunicazione nella regione Piemonte?
Il servizio era in capo alle province e dal 2007 ai Comuni o Consorzi di Comuni, in gran parte con una compartecipazione economica delle ASL, sebbene in forma minore. Il servizio è gestito in accreditamento, questo significa che gli enti (cooperative, fondazioni, associazioni, ecc.) che hanno certi requisiti si accreditano, cioè vengono iscritti in una sorta di albo. Le famiglie titolari del diritto ad avere un assistente scelgono da quell’albo da chi vogliono farsi seguire. L’ente viene quindi contattato dall’assistente sociale del bambino sordo su indicazione della famiglia e viene avviato il progetto. Ci sono due albi, uno per gli studenti con sordità e uno per gli studenti con cecità.

9. Quali sono i requisiti richiesti per poter lavorare come Assistente alla Comunicazione in Piemonte?
È necessario avere una laurea in scienze dell’educazione (o titoli equipollenti) e formazione specifica documentata nelle disabilità sensoriali.

10. Dal Linguaggio Mimico Gestuale (LMG) alla LIS: evoluzione naturale o frutto della ricerca?
Direi frutto di una riscoperta. L’abbiamo sempre saputo che si trattava di una lingua, solo che nel corso della storia hanno prevalso cicli di riconoscimento o diniego di questa realtà abbastanza ovvia.
11. Quali sono gli errori più comuni che le persone sorde commettono in italiano?
Dipende da che sordi sono e da tanti altri fattori. Tra le difficoltà più trasversali possiamo però citare, sia per l’italiano, sia per le altre lingue materne: una certa povertà e rigidità lessicale, qualche errore fonologico (inversioni, sostituzioni, omissioni di lettere o sillabe), forme sintattiche non standard, problemi di comprensione del testo. Direi esattamente i problemi che hanno gli udenti quando imparano la LIS e che sono dovuti a un ritardo nell’esposizione alla lingua stessa.

12. I sordi e l’inglese: una sfida nella sfida?
No, non direi. Per i sordi segnanti è solo una ulteriore lingua straniera da studiare, oltre all’italiano. Ma può essere addirittura più facile dell’italiano, perché tipologicamente più affine alla LIS.

13. Quanto pensi abbiano influito le ricerche sulla Lingua dei Segni in Italia nell’evoluzione dal Linguaggio Mimico Gestuale alla LIS?
Poco nella lingua in sé. Molto nel restituire ai segnanti la coscienza e l’orgoglio di usare una vera e propria lingua.

14. Quali sono le tue letture preferite in materia di sordità e lingue segniche?
Per lavoro, a proposito di sordità voglio e devo leggere tutto. Ma proprio tutto.
Mi sento tuttavia di consigliare: Dalla mano alla bocca di Michael C. Corballis e L’istinto del linguaggio di Steven Pinker.

15. Qual è il tuo motto?
A dire il vero ne ho due:
“Il mondo è un libro: quelli che non viaggiano ne leggono solo una pagina.” Sant’Agostino
“Non smettere di farsi domande è l’unico modo per trovare risposte.” Anonimo

Michele Peretti redazione@viverefermo.it
Fonte: viverefermo it

PER SAPERE DI PIU’
Archivio delle interviste di M.Peretti
Istituto dei Sordi di Torino 1835

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