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Carbonieri Giacomo. Noto Educatore Sordo (1814-1879)

Approfondimenti e ricerche su Giacomo Carbonieri a cura del Comitato della Biblioteca Storica (Pio Istituto Sordomuti, Associazione Benefica Sordoparlanti – G. Cardano, Sezione Provinciale ENS di Milano)
Abbiamo letto con piacere il libro di Renato Pigliacampo che ha per titolo: «Il genio negato: Giacomo Carbonieri…». È scritto in stile brillante, ma anche di facile comprensione.
E questo non è cosa da poco. Le argomentazioni sviluppate nel libro dimostrano ancora una volta la preparazione scientifica e la vasta cultura dell’autore.
La pubblicazione presenta un libretto di Carbonieri edito nel 1858.
È uno scritto che mette in risalto la vasta cultura del sordo modenese: una erudizione davvero singolare a cui ha contribuito in parte la scuola, ma soprattutto il suo impegno di autodidatta. Il libretto è la più bella prova di una delle verità su cui Carbonieri insiste molto: e cioè la presenza di una intelligenza normale nel sordo, nonostante la sua minorazione: intelligenza che può raggiungere una perfezione impensabile quando è alimentata da una solida istruzione. La lettura del libro comunque ci dà modo di fare alcune puntualizzazioni.
I
Pigliacampo nella sua introduzione dice: “Titolando questo libro ho voluto intenzionalmente essere provocatorio. Il ‘’genio negato’’ è Giacomo Carbonieri, respinto nella sua lingua e cultura. L’ostracismo degli studiosi del tempo – e la maggiore responsabilità va all’atteggiamento degli istruttori verso quest’uomo del silenzio – non può non colpire tutte le coscienze libere che hanno a cura l’educazione, l’istruzione e la comunicazione sia in LIS sia nella verbalità della popolazione sorda del nostro Paese”.
La genialità di Carbonieri a noi sembra che sia stata quella di aver difeso i sordi approfondendo, assimilando e discutendo i problemi sulla loro istruzione, che peraltro erano molto presenti negli studi e nelle riunioni dei loro educatori.
Non diremmo poi che Carbonieri sia stato un genio negato. Se si deve giudicare dal necrologio pubblicato sulla rivista “Educazione dei Sordomuti” (così erano comunemente chiamati i sordi allora) bisogna dire che Carbonieri era stimato dal punto di vista umano, culturale, religioso e che conosciuto era il suo pensiero. “L’Educazione dei Sordomuti” era la rivista degli oralisti Pendola, Tarra, Marchiò… e il necrologio ha la firma di G. Grandi.
Riportiamo qui alcuni brani.
Cenni biografici sopra il sordomuto Giacomo Carbonieri
“Nel giorno 8 Aprile cessò di vivere in Modena Giacomo Carbonieri sordo-muto conosciutissimo per tutta l’Italia, ed esempio luminoso del sommo vantaggio recato dalla cristiana industria nell’educare gl’infelici privi di udito e di loquela, abbandonati in addietro alla più pericolosa ignoranza. Manifestò sempre la più grande amicizia e riconoscenza verso tutti gl’istitutori dei sordo-muti e specialmente verso il Fabriani, che nominava con tenerezza fino alle lagrime. Leggeva con interessamento ed incoraggiava col proprio censo gli scritti e le pubblicazioni periodiche, frutto delle loro fatiche. Ma più di tutto amoroso era verso i compagni di sventura. Ne difendeva caldamente in discorsi ed in iscritti le ragioni quando le credeva disconosciute, ed esempio ne porgono le sue Osservazioni sopra l’opinione del Sig. Giovanni Gandolfi professore di medicina legale nella Regia Università di Modena stampate coi tipi di Carlo Vincenti 1858. Per un amor proprio compatibile nella sua condizione era il Carbonieri caldo partigiano della completa emancipazione dei sordo-muti istruiti, e mal sopportava ogni idea di tutela”. (Dalla rivista “L’educazione dei Sordomuti” 1879 [pagg. 151-52-53]).
Un’altra prova che il Carbonieri non sia stato un Genio completamente negato e dimenticato, l’abbiamo trovata consultando un testo della nostra Biblioteca; e precisamente il “Rendiconto Annuale del Pio Istituto Sordomuti di Milano”: è del 1857, ma raccoglie anche gli avvenimenti del 1858. Vi troviamo una lunga relazione del Presidente Conte Paolo Taverna, amico di Carbonieri (notiamo che questi cita più volte nel suo scritto “Osservazioni…” alcune affermazioni del Taverna fatte nel “Rendiconto” del 1855…). Taverna nel “Rendiconto” del 1858 considera l’aspetto legale dell’imputabilità del sordo, prendendo lo spunto da quanto dice Carbonieri sull’ultima parte del suo scritto “Osservazioni”… Taverna difende innanzitutto Carbonieri dalle insinuazioni di coloro che sospettano il libretto scritto non da lui ma da amici più bravi.
Termina poi la sua trattazione con riflessioni che praticamente concordano con quelle del Carbonieri.
Nel medesimo «Rendiconto» troviamo un discorso di Giulio Tarra, tenuto nel 1858. Vi leggiamo le medesime idee del Carbonieri sulla intelligenza del sordo, anche prima della sua istruzione: istruzione comunque necessaria perché tale intelligenza possa svilupparsi.
E al riguardo Tarra parla di un “mezzo, il quale, se non l’unico, è certamente il più alto allo sviluppo ed al legame del pensiero all’intelletto… la parola”. Sostiene perciò la parola, non come l’unico mezzo: e a quei tempi l’Istruzione era ancora gestuale e orale anche nelle scuole del Tarra.
Dato il tema di questo discorso del Tarra, si può supporre che abbia avuto sott’occhio lo scritto del Carbonieri arrivato in quell’anno al suo Istituto. Riportiamo qui la fotocopia di alcuni brani del Taverna e del Tarra tolti dal sopraccitato “Rendiconto”.


Riproduzione della copertiva  del libro di Carbonieri inviata da Giuseppe Bolzoni (2008)

Parole del Conte Paolo Taverna
(A pag. 16) – (Dal Rendiconto del 1858): «Il signore Giacomo Carbonieri sordo-muto di Modena pubblicò con i tipi di Carlo Vincenzi di quella città alcune osservazioni intorno all’opinione emessa dal signor Giovanni Gandolfi professore di medicina legale nella Regia Università di Modena riguardo ai sordo-muti.
Questo lavoro interessa sotto un doppio punto di vista, cioè per la questione a cui si riferisce, e pel modo con cui venne sostenuta da un sordomuto, il quale si fa conoscere come uno dei più istruiti della Penisola…».
(A pag. 22) – «Nei rapporti di diritto civile il sordo-muto non istruito non potrebbe abbandonarsi senza una speciale protezione, perché è privo d’ogni cognizione dei propri diritti, dei propri doveri, perché manca d’ogni maniera di comunicazione intesa universalmente nel proprio Paese. Per lui è indispensabile quindi che sia destinato un Tutore, che ne curi gli interessi.
«Totalmente diversa è la posizione del sordo-muto istruito. Essa sta in relazione all’istruzione a lui impartita, ed alla potenza di lui nell’approfittarne. – Siccome i sordo-muti ponno avere potenza di intelletto e di cuore pari a quella di tutti gli altri uomini: così penso che essi ponno essere capaci in determinate condizioni della pienezza dei diritti civili. Ma l’applicazione agli individui di questo concetto, che sembra fondatissimo parlando in astratto, diventa oltremodo difficile.
«Egli è certo però che vari sordo-muti col beneficio di una appropriata educazione si portarono ad uno stato di indubbia attitudine a governarsi da sé senza il bisogno di una speciale tutela, ed essi servono a dimostrare la verità di quanto ho di sopra esposto sulla potenza loro, potenza della quale il signor Carbonieri stesso è un luminoso esempio.
«I sordo-muti dotati di questa forte potenza intellettuale, opportunamente istruiti mancano soltanto dell’attitudine a comunicare le loro idee coll’ordinario mezzo della lingua. – Questa mancanza per sé sola non fece mai nascere il pensiero di applicare l’interdizione a chi ne soffrisse.
«Ma nella pluralità del casi l’istruzione che si dà ai sordo-muti è poi tale da fornire cognizioni sufficienti a sviluppare la potenza intellettuale in modo da abituarli ad un indipendente e utile esercizio dei propri diritti, ed all’adempimento dei corrispondenti doveri?
«Già nel “Rendiconto” 1855 ne esprimeva a pag. 22 un grave dubbio. Il trattamento giuridico dei sordo-muti dovrebbe, a mio avviso, essere in proporzione dell’istruzione effettivamente da essi posseduta, verrebbe quindi la insorta vertenza conciliata applicando ad essi la disposizione portata dal §275 del vigente Codice Civile Austriaco così concepita:
«I sordo-muti se sono ancor imbecilli rimangono sempre sotto la tutela. Se poi incominciato il vigesimoquinto anno sono capaci di amministrare le proprie cose non si deputa ad essi, malgrado loro, un curatore, ma non possono mai comparire in giudizio senza Procuratore».
«Questa disposizione mentre tiene calcolo della individuale attitudine, garantisce il sordo-muto da ogni pregiudizio, che gli potesse derivare dalla mancanza di conoscenza per parte sua del linguaggio altrui, e per mancanza da parte degli altri di cognizioni per comprendere il linguaggio suo proprio, o ciò che egli manifesta per segni, e lo garantisce appunto prescrivendolo che in ogni occasione, in cui deve comparire in giudizio, deve essere assistito da un Procuratore. – Essa non intacca minimamente né l’intelligenza, né la dignità dei sordo-muti, poiché li suppone capaci di esercizio dei propri diritti. Sarebbe stato desiderabile che nel §275 fosse stato omesso il primo periodo, poiché supponendo riunita l’imbecillità alla mutolezza, lascia credere che abbia calcolato la seconda dipendente dalla prima sebbene ciò
non sussista, e l’imbecillità vada tutelata per generale disposizione di legge, indipendentemente dal cadere o no in un individuo mancante dell’udito e della loquela.
«Il sig. Carbonieri stesso trova opportuno che i sordo-muti siano sussidiati da una società di patronato. La delegazione di un Curatore, quando essi non dimostrino di avere attitudine ad amministrare le cose proprie, corrisponde allo scopo del patronato; questo anzi non è che un’applicazione più efficace dello stesso principio.
«Il sordo-muto non ha da temere la protezione della legge, come non ha a rifuggire da quella dei propri concittadini, quando non possa provare di essere atto a condurre da sé, e da buon padre di famiglia, le cose proprie.
Esso, e quelli che per lui si interessano hanno piuttosto a protestare contro l’abbandono, nel quale per troppo lungo tempo i sordo-muti furono lasciati, e dal quale sentirono tanto danno.
«Non devono essi credere facile il caso, che nelle emergenze nelle quali è permessa una differenza d’opinione, la persona delegata a curare i loro interessi non sia per tener conto del desiderio da essi rappresentato, dappoiché non vi sarebbe un titolo che potesse determinare un Tutore, o Curatore, a tener un contegno opposto allo scopo della tutela, e perché il giudice all’evenienza del caso non lascerebbe di rendere ragione alla rimostranza del sordo-muto. Richiamando quanto venne detto nel «Rendiconto» del 1855 mi conviene aggiungere essere nell’interesse dei sordo-muti, che il giudice prima di ammettere la domanda diretta ad essere riconosciuti atti a disporre liberamente delle cose proprie, abbia a procedere con ogni cautela e dietro un ben prudente esame, imperocché la dichiarazione fatta da un solo esperto, che un sordomuto ha frequentato la scuola, ha acquistata l’attitudine, ad esprimere i propri pensieri nelle cose comuni della vita, ed a comprendere tutto quanto a lui si espone dalle persone, le quali conoscono i mezzi di comunicazione da lui praticati, non sarebbe sufficiente a provare l’attitudine sua al pieno esercizio dei propri diritti.
Perché la sua opposizione alla nomina di un Curatore potesse essere valutata sarebbe a desiderarsi che si richiedesse la dimostrazione che egli possieda quest’attitudine in modo incontrastabile.
«Anche nei rapporti della responsabilità delle azioni commesse dai sordo-muti istruiti penso che il giudizio debba avere riguardo all’effettiva attitudine del sordo-muto, e pensare le conseguenze. – Ripeto che l’avere un individuo compiuto un corso elementare di grammatica, l’aver avuto le più necessarie cognizioni in materia di religione non prova che egli conosca pienamente la sfera dei propri doveri sociali.
«Posto fine a queste considerazioni promosse dal tema trattato nell’opuscolo del sig. Carbonieri, mi è d’uopo di fare intorno al medesimo qualche aggiunta.
«L’articolo del sig. Bosellini farebbe supporre che il lavoro del Carbonieri fosse dovuto piuttosto ad alcuni suoi amici che non a lui stesso. – La citazione di alcuni passi di autori latini e francesi, delle lingue dei quali esso si dichiara ignoro, e la confessione di avere approfittato del consiglio di alcune persone, con cui si trova in relazione, produssero nel signor Bosellini il dubbio sopra accennato, sebbene non lasci di qualificare il signor Carbonieri come persona istruitissima e dotata di straordinario ingegno.
«Le notizie che ebbi da lui or sono pochi mesi a Modena, i dialoghi che tenni con lui stesso sopra svariati ed importanti argomenti tanto in Modena quanto qui a Milano quando vi si recò, le lettere del signor Carbonieri, gli scritti che ebbe a comporre in mia presenza mi fanno certo dell’attitudine di lui a redigere da sè l’opuscolo in discorso. Dagli amici avrà avuto indicazioni di scritti che trattano l’argomento da esso sostenuto, avrà avuto la versione in italiano di quanto era scritto in lingue da lui non conosciute, ma l’opera è certamente sua, e nel procurarsi gli opportuni sussidi non avrebbe fatto se non quello che anche molti scrittori più provetti sogliono fare.
La lealtà che lo distingue non permette una supposizione diversa, esso non avrebbe voluto adornarsi delle penne altrui.
«L’imparzialità che ho procurato di mettere nel trattare le premesse importanti questioni, nelle quali se ho riconosciuto che i sordo-muti non sono per nulla paragonabili a quelli che mancano di intelligenza, mostrai però di essere persuaso, che nella maggior parte dei casi, hanno bisogno di tutela, per non essere pregiudicati nei loro diritti, credo che mi meriterà ampia fede quando tributo la più sincera stima al signor Carbonieri per elevata intelligenza e profonda probità».

Dal discorso di Don Giulio Tarra (1858) – (Rendiconto 1857)
(A pag. 146) – «E tal sventura è veramente profonda, che mentre allo sguardo di chi la considerò coll’occhio umano superficiale, apparve leggera, perché insensibile, chi appena osò penetrarvi ad indagarla, dovette ritrarne lo sguardo inorridito a segno di giudicarla irreparabile. E vi furono uomini distinti per ingegno e per cuore, che esagerarono lo stato infelice del sordo-muto ineducato a maggior danno di lui e ad offesa della santità propria alla giustizia e provvidenza divina, dichiarando ineducabile questa mente, insanabile questa piaga, paragonando il misero sordo-muto, alle creature irragionevoli. – No! l’uomo può avvilirsi a tal punto trascurando i doni del Creatore, ma Questi non poteva degradarlo così, nè crearlo irragionevole ed uomo, ineducabile e capace di una coscienza.
Lungi quindi un tal giudizio, un tal confronto, che ingiustamente offendono e l’uomo e Dio; la sciagura del sordo-muto è già troppo grave riconoscendola qual è, che vogliasi aggiungere l’avvilimento alla umiliazione. – Ogni dolore, per quanto profondo, ha la sua dignità, corrispondendo ai fini di un’altra sapienza e giustizia: epperò chi toglie la dignità al dolore, toglie all’uomo la sua nobiltà, l’unico appoggio nella sua desolazione: ed alla gloria dell’aver sostenuto una prova, ingiustamente fa succedere il rossore di avere patito una condanna.
«No! – anche il sordo-muto privo di ogni istruzione ha un’anima intelligente come ogni altro uomo e vi porta scolpito il raggio dell’immagine divina; egli ha gli stessi doveri, gli stessi diritti di noi ed è chiamato anch’esso allo stesso fine, che è l’eterna felicità nella contemplazione del vero. La sua sventura non sta nella sua essenza, ma nel difetto dei mezzi principali creati a conseguire la presente felicità e la perfezione futura.
– Anch’esso come ogni altro uomo dovrebbe appartenere per suo pensiero all’ordine intellettuale, per la sua volontà all’ordine morale, per l’unione co’ suoi simili all’ordine domestico e sociale, per la sua coscienza, per la sua fede e pei suoi destini all’ordine religioso. Ma a tutto questo fu ordinato da Dio, conservato ed ampliato dagli uomini un mezzo, il quale, se non è l’unico, è certamente il più atto allo sviluppo ed al legame del pensiero coll’intelletto, della volontà colla legge, dell’uomo colla famiglia e colla società, della coscienza colla religione: la parola».
II
Il libro di Pigliacampo prende occasione della presentazione di Carbonieri per dare dei giudizi poco favorevoli delle Istituzioni dei sordi, gestite allora, nella quasi totalità da Religiosi e Religiose.
Ecco alcuni giudizi:
(A ag. 8) – «Dapprima il sordo lo si è posto nelle mani delle Congregazioni religiose per permettergli con una educazione oralista, l’acquisizione del tanto auspicato verbum perché potesse confessare le colpe al sacerdote, ministro di Dio, attraverso la parola vocale ottenendo la remissione dei peccati».
(A pag. 7) – «Secondo me il nostro (Carbonieri) ha pagato un pedaggio spropositato alla società bigotta e moralista del tempo, considerato che l’educazione dei sordi era quasi esclusivamente nelle mani dei religiosi».
(A pag. 59) – «A mio parere l’Opuscolo… fu messo all’indice per i seguenti motivi: l’uno morale: come ricordato gli ecclesiastici avevano in maggioranza a carico l’istruzione e l’educazione dei sordomuti, mal tolleravano un sordo colto, intelligente con uno status morale, a dir poco audace, considerando che, allora, avere un figlio naturale e non sposarne la madre era un’inammissibile “colpa”».
È un’insinuazione audace. Quali prove?
(A pag. 58) – «L’emarginazione di Giacomo Carbonieri fu una condanna, una punizione morale del bigottismo del tempo: non riconoscendo alle sue istruzioni il ruolo scientifico lo si estrometteva, non solo dalla società scientifica… ma anche dal contesto della comunità dei sordi, indicandolo soggetto immorale, e, pertanto di cattivo esempio per i simili».
A dire il vero quest’ultima affermazione sembra contraddetta, ad esempio, dai buoni rapporti che ebbe a Modena col Fabriani e dalla frequentazione intensa col suo Istituto.
Come dice il sopracitato necrologio di «L’Educazione dei Sordomuti» 1879:
«Operosa era la sua carità. Mantenne alcuni alunni in questo Educatorio di Modena, e prese parte ad azioni per altri Istituti. Nell’Educatorio stesso erano continui i tratti del suo splendido cuore, i numerosi doni per fornimento della scuola e della cappella, e pei divertimenti degli alunni. Nel tempo addietro egli medesimo diede opera assidua alle lezioni di lingua italiana e di catechismo. Per diversi anni fece le spese per una gita di tutto l’Educatorio alla sua villeggiatura di Campagnola, ove la sua ottima Famiglia gareggiava con lui nella gentile accoglienza. La sua casa poi era sempre aperta pei sordo-muti, e per sua espressa volontà il suo asse creditorio, quando sarà purgato da ingenti oneri, ridonderà pure a vantaggio di questo modenese istituto ».
Indirettamente poi si riferisce ai Religiosi e Religiose che avevano in maggioranza le scuole dei sordi l’affermazione negativa di Pigliacampo che dice:
(pag. 44) – «Il Carbonieri aveva gettato il seme (lingua visivo-manuale), o meglio una proposta reale per la comprensione del sordo nei suoi bisogni di comunicazione e quindi di accesso alla cultura. Purtroppo la questione dell’istruzione dei sordi era ambigua già in partenza perché un’alta percentuale delle Scuole speciali aveva per fine soltanto l’incameramento delle “rette” di mantenimento, perciò tentavano di accreditarsi quali centri di ricupero funzionali dell’udito e della favella.
Più che scuole erano, appunto, Centri riabilitativi o presunti tali».
Veramente tutti questi giudizi sembrano alquanto restrittivi e gettano una certa ombra sul bene che hanno fatto ai sordi tante Istituzioni cristiane. A parte il metodo d’insegnamento, a parte i difetti e le debolezze nelle quali possono incorrere tutte le istituzioni umane, nessuno può mettere in dubbio che le finalità dei Sacerdoti, dei Religiosi e delle Religiose furono sempre la migliore promozione umana e la più zelante evangelizzazione dei sordi, specialmente dei più poveri: nessuno può mettere in dubbio l’amore col quale hanno dedicato tutta la loro vita per una missione così grande: nessuno può mettere in dubbio che fu merito loro la diffusione in tutte le nostre Regioni dell’educazione dei sordi, partendo quasi da zero e con pochissimi mezzi. Testimoniano tutto questo la riconoscenza affettuosa dei loro ex allievi e delle loro ex allieve.
E lo testimonia anche la stima che Carbonieri ebbe verso di loro, compresi gli oralisti.
A questo proposito riportiamo dai suoi scritti alcuni brani molto significativi: uno lo troviamo alla fine (pag. 134) del libro «Il genio negato» e l’altro nella introduzione alla biografia di Don Antonio Provolo; biografia che Carbonieri volle dedicare al nostro presidente Conte Paolo Taverna a cui era legato da sentimenti di profonda ammirazione e di sincera amicizia.
Dal libro: «Il genio negato», pag. 134: «Ed invero in molti casi alcuni Comuni, qualche Sovrano hanno pensato di fondare Istituti per Sordo-muti, ma troppo ancora manca in tanti luoghi per il bisogno. Il Clero certo e la Religione, in quest’opera di grande carità, sono stati i primi che han fatto quanto si poteva desiderare, ma sta alla società di dare i mezzi materiali. Intanto pensi la società che cosa hanno fatto per noi il benedettino Ponce, San Francesco di Sales, l’Abate De L’Epée con tutta la nobilissima schiera che li ha seguiti, fino all’Assarotti e al Pendola delle Scuole Pie, al nostro Sacerdote Fabriani, che ci spese la propria vita, a Monsignor Pellegrini, a Borsari, ai Gualandi di Bologna, a Morano di Roma, all’Aiello di Napoli, al Provolo e a Maestrelli di Verona, verso i quali io ho conoscenza personale e gratitudine somma».

Dalla biografia di Antonio Provolo (primo oralista in ordine di tempo)
AL NOBILISSIMO SIG. CONTE PAOLO TAVERNA
Presidente della Commissione per l’istruzione dei Sordomuti poveri di campagna della Provincia di Milano.
«… Nel pubblicare questo lavoro tenuissimo è mio scopo porgere un attestato di gratitudine e di onoranza all’illustre Provolo, e con lui a tutto il Sacerdozio Italiano, a cui massimamente si deve l’introduzione fra noi dell’istruire i Sordo-muti. Il dedicarlo alla S.V. è un offrire a Lei un segno non tanto di mia privata riconoscenza, quanto un omaggio dovutoLe come a vero padre e vero amico di tutta l’infelice mia classe. Ella è vero padre dei poveri Sordo-muti del vasto milanese, e con due appositi stabilimenti per ambo i sessi all’istruzione affidati di zelantissimo Sacerdote, (don Giulio Tarra,) e pie Religiose, provvede in ammirabile progresso alla morale redenzione di tanti infelici.
Ella è vero amico di tutti i Sordomuti italiani e stranieri, e con quell’annuale Rendiconto unico nel suo genere, e con relazioni e corrispondenze continue cogli altri Istruttori, promuove a meraviglia gli incrementi dell’arte cristiana e caritatevole….
Modena il Maggio del 1864.
Della S.V. Ill.ma Dev.mo, Obbl.mo Servitore Giacomo Carbonieri Sordomuto».
III
Un’altra osservazione vorremmo fare sullo scritto di Pigliacampo: e cioè sul suo atteggiamento negativo sia nei riguardi di Don Giulio Tarra (e non Mons. Tarra) sia nei riguardi del Congresso di Milano (1880). È un atteggiamento molto diffuso ai nostri giorni, che suscita amarezza nel cuore di tanti sordi milanesi.
È vero: Tarra fu il Presidente del Congresso, ma gli oralisti a quei tempi erano molti: in particolare Fornari dell’Istituto Nazionale di Milano, che fu Segretario del Congresso; oralisti erano poi Pendola, i suoi confratelli di Siena e molti altri ancora. È da ricordare inoltre che il primo oralista, in ordine di tempo, fu Don Antonio Provolo di Verona. Non si comprende perciò questo continuo appellarsi al Tarra nella polemica dei metodi.
Un appunto poi speciale vorremmo fare su un’affermazione di Pigliacampo che ci sembra molto azzardata. A proposito di un giudizio negativo che sembrava gravare sul Carbonieri, a quei tempi, egli fa sorgere il sospetto che sia colpa del Tarra. Dice infatti, a pag. 37: «È lecito ipotizzare che questa vicenda sia arrivata all’orecchio di Mons. Tarra. L’emarginazione del Carbonieri non ha fondamento scientifico, ma morale!». Viene da domandarsi: Quali sono le prove?
A proposito poi del Congresso di Milano, vogliamo riportare il giudizio positivo espresso da P. Arturo Elmi nel suo libro «Oralismo»:
«Di fronte ai mezzi di ricerca di oggi ed avvolti dalle fiamme fumogene della scienza socio-psicologica dominante, si sarebbe portati a giudicare i convenuti al Congresso di Milano quasi con commiserazione, perché erano essi ancora lontani dalle sorprendenti conquiste odierne. Sarebbe antistorico, oltre che irriguardoso, sospettare di superficialità e di impreparazione individui di una personalità così spiccata ed eminente, con alle spalle una lunga e sudata esperienza, quali furono i presenti nel 1880 nella capitale lombarda. Gli “addetti ai lavori” non si trovavano alle prime armi, non si improvvisarono maestri, né si inoltrarono in una materia conosciuta solo vagamente. Avevano approdato all’oralismo, dopo anni e anni di esperienza; ma una gran parte di essi dopo le delusioni dell’uso del metodo misto e dopo un paziente pellegrinaggio di istituto in istituto alla ricerca di risultati, che li illuminassero nella verifica dell’uno o dell’altro metodo, avanzare dubbi in questo settore sarebbe misconoscere la storia».
Non vogliamo addentrarci nella spinosa discussione sui metodi d’insegnamento e sulla natura dei linguaggi gestuale e orale.
Tutti concordano comunque nel ritenere necessario che il sordo conosca e usi anche la lingua degli udenti.
Allo scopo di insegnarla, per tanto tempo si usò il metodo orale puro scelto quasi all’unanimità dal Congresso di Milano. Non fu comunque un rinnegamento del linguaggio gestuale, che fuori dell’aula scolastica fu sempre usato come linguaggio naturale. Scrisse a questo proposito Don Giulio Tarra: «Se il sordomuto, crescendo nell’età, vorrà accoppiare la lingua che conosce al gesto a lui naturale per meglio esprimere il suo modo di sentire, se ne serva: ciò non farà danno né alla sua idea né alla sua lingua, perché questa ne sarà sempre la base sicura e la forma sostanziale…». (Rendiconto anno 1878-82, pag. 56).
Data l’importanza, sostenuta da tutti, anche del linguaggio orale per i sordi; data inoltre la difficoltà del suo apprendimento, nella scuola si insegnò col metodo orale puro: e cioè si escluse il gesto che poteva ostacolare l’oralità e soprattutto la lettura labiale.
Adesso si afferma che anche la lingua gestuale è una vera lingua, e che bisogna insegnarla; si afferma che i sordi hanno piacere di vedere la parola accompagnata dal gesto; si afferma che in certe situazioni è addirittura necessario per poter comunicare da lontano.
Tutte affermazioni che bisogna accogliere senza però negare la necessità anche della lingua orale: non solo scritta, ma anche come mezzo di comunicazione col mondo udente.
Il metodo orale, fino a qualche decennio fa, era il metodo usato in tutte le scuole e nessuno faceva opposizione. I frutti buoni non sono mancati. Scrive P. Elmi nel suo libro “Oralismo” (pag. 130):

«Chi usa dei paraocchi potrà ancora sollevare dei dubbi sui risultati conseguiti dal 1880 ad oggi da parte di quegli educatori che hanno operato sulla linea del verdetto oralista. Non così chi, senza pregiudizi né prevenzioni, si rifà al livello conseguito dai sordi istruiti oralmente, al loro inserimento in ogni campo sia personale che familiare, sia sociale che produttivo, alla loro capacità d’assimilazione nel tessuto linguistico e comunicativo, pur a loro meno connaturale e congeniale».
In tutti questi problemi è meglio evitare la polemica: si può costruire sul nuovo senza distruggere il bene che si è fatto prima. Pigliacampo ha ripreso la polemica approfittando dello scritto di Carbonieri. Eppure questi, pur difendendo il valore della comunicazione gestuale, ha stimato anche il linguaggio orale.
È sintomatico il fatto che lui stesso abbia sentito il bisogno di impararlo bene andando a Verona a scuola del primo oralista: Don Antonio Provolo. Una permanenza che è durata pochi mesi a causa della morte prematura del sacerdote. Comunque espresse la sua riconoscenza scrivendo una biografia del Provolo nella quale loda il suo metodo orale.
Ecco alcune sue affermazioni (pag. 12): «Ma quando si parla dell’Abate Antonio Provolo non è lecito passare sotto silenzio il metodo del suo insegnare. Tal metodo eleva il suo Autore sopra la cerchia di quanti furono istruttori italiani o stranieri, perché né da alcuno prima di lui fu coltivato, né dopo lui si conoscono fatti che lo dimostrino propagato o sostenuto. E ciò non significa che esso riuscisse falso oppure inutile; vuol dire piuttosto che un tal metodo straordinario non poteva attuarsi che dal genio ammirabile e dalla straordinaria industria di Antonio Provolo.
Consisteva esso sostanzialmente nella parola articolata e nel canto.
«Diceva pertanto, per stabilirne le ragioni l’illustre Autore, che l’istruzione dei Sordomuti secondo i metodi di De L’Epée, del Sicard, dell’Assarotti ed altri fin allora conosciuti, era troppo lunga e pesante; ed anzi per la più parte di essi di dubbia riuscita: che anche gli allievi meglio ammaestrati, giusta gli anzidetti sistemi, non sortivano abbastanza colti per vivere in società ove non si capisce il linguaggio dei gesti, e lo scritto alcuna fiata non è ben inteso: poter quindi benissimo il Sordo-muto, come ogni parlante, appreso l’alfabeto e parecchi nomi e proposizioni, avvezzarsi da sé a leggere sull’altrui labbro ed a pronunziare altri nomi, altre proposizioni ed altri discorsi al pari dei loquenti fanciulli. Siccome poi la voce del Sordo-muto è sempre stridula ed acre, così quel Sommo Uomo diceva che la Musica per mezzo del Canto poteva somministrare all’infelice un mezzo per regolare gl’imposti suoni e mandare parole gradite».
(Dalla biografia di Don Antonio Provolo scritta da Giacomo Carbonieri).
Dopo queste osservazioni chiarificatrici rinnoviamo la nostra lode e la nostra stima a Pigliacampo che ha voluto richiamare alla memoria Giacomo Carbonieri, che davvero fu tanto benemerito sia per lo studio dei problemi dei sordi, sia l’impegno con cui ha difeso i loro diritti.
Nella lunga e complessa storia dell’Educazione dei sordi e dei loro Istituti certamente ci sono tante nobilissime figure il cui pensiero meriterebbe, come ha fatto Pigliacampo per Carbonieri, di essere studiato e segnalato alla pubblica opinione.
Chiudiamo perciò il nostro scritto, auspicando che ci siano altri studiosi che lo sappiano fare.

In risposta al “Genio negato” di Renato Pigliacampo
Agli «Amici della Biblioteca Storica», sul n. 2 del trimestrale Giulio Tarra di aprile-giugno 2002, pp. 4-6, leggo il Vostro intervento, le cui informazioni documentate mi favoriscono l’approfondimento di Giacomo Carbonieri. Vi sono grato dell’apporto, contento inoltre della Vostra unità di giudizio, raro nella critica degli studi e ricerche.
Forse il testo, da me scritto sul Carbonieri, è limitante per mettere in evidenza e approfondire la complessità della sua opera sia di promotore dell’educazione dei sordi sia per la vastità degli argomenti che, il sordo di Modena, ha trattato nel corso della sua turbolenta vita.
Comunque sia, io vi faccio sapere che ho «lavorato» sul testo base, ovvero sulle Osservazioni. Il libro di Giacomo Carbonieri, per valutarne tutta la ricchezza pedagogica e psicolinguistica, è bene leggerlo avendo una buona conoscenza di base della Linguistica e della Psicolinguistica generale (che verranno dopo…). Il mio ragionamento è a priori.
Mi sono chiesto – e con me i sordi di una certa cultura – cosa saremmo stati, noi sordi, se “valutati“ persone come le altre (e non sempre a considerarci sugli orecchi chiusi) se certi educatori avessero fermato l’attenzione sulle mani dei sordi (che creano la forma della parola) piuttosto che sui fonemi pronunciati male. Lane ci fa sapere nel suo libro Il ragazzo selvaggio dell’Avayron, edizioni Piccin, Padova, che Itard, che può essere indicato il primo otorino o studioso di audiologia, operante per 40 anni nel notissimo Istituto per Sordomuti di Parigi, solo in punto di morte ebbe a dire che i sordi utilizzavano il linguaggio a loro più congeniale, espresso con i codici segnici.
Io ho esaminato gli appunti del biografo di famiglia Camillo Carbonieri, Intorno alla famiglia Carbonieri di Campagnola Emilia. Note biografiche; ho valutato i testi di Giovanni Gandolfi; considerato l’intervento del Sacerdote Vischi, a difesa di Giacomo, contro i pregiudizi del «chiarissimo professor Giovanni Gandolfi».
Vero che G. C. aveva un buon rapporto con alcuni ecclesiastici (non poteva che essere così perché erano i custodi dei sordi – i suoi fratelli del Silenzio – e frequentandone le Scuole voleva capire, studiare e aiutare per indicar loro il riscatto attraverso l’istruzione). Vero pure che aveva buoni rapporti con Paolo Taverna (…). Ma l’amicizia e la frequentazione sono una cosa, il rispetto delle idee educative e l’accoglienza della filosofia dell’educazione, nel nostro caso, sono ben altra cosa. Mi sono più volte domandato perché pochi sordi sono stati chiamati a insegnare ai simili, e sino al 1990, nel nostro Paese, era impossibile ai sordi insegnare, dietro i diplomi della maturità magistrale era etichettato il divieto di concorrere ai posti d’insegnamento.
Mentre in tutti i Paesi civili e democratici (vedi gli Usa e i Paesi scandinavi…) i sordi, in possesso di titoli, diventavano protagonisti e promotori di cultura e di lingua nei confronti di coloro che sperimentavano la stessa disabilità sensoriale.
Il mio libro (anzi la mia Introduzione al testo di Carbonieri) deve essere letto considerando gli aspetti sociali, sociologici, psicologici dei tempi. Ma anche la critica che faccio a posteriori. Qualcuno dovrebbe interrogarsi perché le Associazioni o le stesse Istituzioni di sordi non ripubblicarono questo libro, non ci fecero riflettere i docenti che si preparavano all’istruzione dei sordi. È pure probabile che si scordi la «rivoluzione sociale» promossa dal Carbonieri quando “attacca“ l’autorità precostituita, la Medicina legale, rappresentata dal barone universitario Giovanni Gandolfi della regia Università di Modena. Riconosco che il pensiero di Giacomo Carbonieri è talvolta frammentario, ma agli studiosi, ai critici interessano le intuizioni: e nel sordo di Modena queste sono linguistiche, sono sociali, sono educative e sono pure religiose.
Qui non c’entrano le suore e i sacerdoti che si prendono cura dei «poveri sordomuti», qui si approfondiscono le tematiche psicologiche e pedagogiche nel processo storico dell’istruzione dei sordi e quindi anche il tanto dibattuto concetto d’astrazione per giungere alla coscienza di Dio. La questione non deve essere sempre affrontata secondo la concezione il sordo può questo o il sordo non può quest’altro, Giacomo capisce invece che il sordo può sempre quando viene bene educato, quando viene istruito secondo i bisogni reali. Egli indica, con l’aiuto del francese «confratello Berthier», che questi bisogni sono la comunicazione idonea tra docente e discente.
Nell’analisi della complessità di questo tema, cari Amici della Biblioteca Storica di Milano, è riduttivo soffermarsi pertanto (e tirarmi le orecchie) sul fatto che abbia confuso l’attributo – una volta – «Mons» col «Don». Suppongo che Mons. Tarra, nel cielo dei Giusti e dei Poeti, non se la abbia presa a male. E poiché stiamo trattando del Monsignore, non corrisponde al vero che ce la abbiamo con lui, unico oralista, no! È che governando il famoso Congresso di Milano del 1880, passato alla storia dei sordi come «il Congresso dove fu approvata l’istruzione dei sordi con metodo orale», egli è assurto a capro espiatorio sia nel bene sia nel male, che è (per taluni) un pochino di più. Ma in quel Congresso il Gallaudet, statunitense, figlio e marito di sorde, osò prendere la parola e comunicò le sue idee a segni, tanto da far dire al traduttore di lingua verbale ch’era chiarissimo e non aveva bisogno d’essere tradotto. No, nessuno aveva capito l’intervento di Gallaudet perché, se il Presidente del Congresso, Mons. Tarra, e gli altri congressisti avessero compreso, sinceramente oggi i laureati in Italia sarebbero molto di più, il bilinguismo e la cultura dell’accettazione della disabilità sensoriale dell’udito non sarebbero ancora come proposta ma consolidate.
E qui mi fermo.
Vi sono grato di avermi stimolato su queste riflessioni. Forse, anche col Vostro aiuto, sarà possibile una seconda edizione del libro con l’approfondimento dei Documenti che, ben volentieri, esaminerò nella Vostra Biblioteca Storica.
ps054 (2002)

PER SAPERE DI PIU’

“Il genio negato” di R.Pigliacampo

«La storia è testimonio dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita» (Cicerone)
«La storia non è utile perché in essa si legge il passato, ma perché vi si legge l’avvenire» (M.D’Azeglio)
«Bisogna ricordare il “passato” per costruire bene il “futuro”» (V.Ieralla)
Per qualsiasi segnalazione, rettifica, suggerimento, aggiornamento, inserimento dei nuovi dati o del curriculum vitae e storico nel mondo dei sordi, ecc. con la documentazione comprovata, scrivere a: info@storiadeisordi.it
“Storia dei Sordi. Di Tutto e di Tutti circa il mondo della Sordità”, ideato, fondato e diretto da Franco Zatini

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