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Sordità e l’impianto cocleare…

MOLTI ALLE ELEMENTARI NON HANNO BISOGNO DELL’INSEGNANTE DI SOSTEGNO»

Sordità, filmati genitori e bambini

Il 25 per cento degli impianti cocleari si fa su piccoli fra zero e tre anni: la risposta all’intervento può essere compresa solo osservando il loro comportamento

MILANO – Anche nel nostro Paese i centri che eseguono impianti cocleari (circa una quindicina) filmano genitori e bimbi: «Analizzare i filmati con uno psicologo può dare spunti per migliorare la comunicazione, ma li noi usiamo soprattutto per fare diagnosi precise (per esempio per verificare che oltre alla sordità non vi sia anche un deficit cognitivo) e come parte fondamentale della riabilitazione dopo l’impianto – spiega Pasquale Marsella, responsabile di Audiologia e Otologia al Bambino Gesù di Roma -. Il 25 per cento degli impianti cocleari si fa su bimbi fra zero e tre anni, di solito fra i 12 e i 18 mesi: in questo periodo la “risposta” all’intervento può essere compresa solo osservando il comportamento del bambino mentre gioca e interagisce con i genitori. Se con alcuni suoni si spaventa, si irrita, aggrotta la fronte noi capiamo di dover modificare un po’ la regolazione dell’impianto. Filmare questi momenti è indispensabile per confrontare le reazioni a distanza di tempo». I bambini sottoposti all’impianto cocleare entro i tre anni con una buona riabilitazione logopedica spesso recuperano completamente: «Molti alle elementari non hanno neppure bisogno dell’insegnante di sostegno», conclude Marsella.

Elena Mel. Fonte: corriere.it

Sorda, ottima pianista: la storia di Holly
La nipote di Ken Loach ha 11 anni e un talento naturale per il pianoforte. Grazie ai genitori, che non si sono arresi

MILANO – «La scoperta della sordità di un bimbo è un trauma per tutta la famiglia. La diagnosi è tanto drammatica da poter mandare in pezzi le relazioni familiari». Sono parole di Ken Loach, il regista inglese de La canzone di Carla e di Il vento che accarezza l’erba, Palma d’Oro a Cannes nel 2006. Loach sa bene di che cosa sta parlando: sua nipote, Holly, è sorda da quando aveva 13 mesi. Appena nata, nel giugno del 1999, era una bimba perfettamente sana. A poco più di un anno, nell’agosto del 2000, si è ammalata di una meningite pneumococcica rischiando la vita. È sopravvissuta ma per il suo udito non c’è stato niente da fare, è rimasta completamente sorda da entrambe le orecchie. A vederla oggi non si direbbe affatto: Holly è una bella bambina di 11 anni che vive a Bristol, in Inghilterra, e soprattutto è un talento naturale per il piano. La sua rinascita è iniziata grazie ai genitori, Hannah e Mike, che non volevano arrendersi a quella sentenza: i medici avevano spiegato che la bimba non avrebbe mai potuto ascoltare e apprezzare la musica e per loro, entrambi musicisti, quella suonava come una condanna.

IMPIANTO COCLEARE – «Mentre ero incinta di Holly – racconta Hannah – lavoravo per un balletto: la bimba ha ascoltato ore e ore di Chopin fin da quando era nella mia pancia. La prospettiva della sordità totale per noi era sconvolgente». Così Hannah e Mike portarono Holly all’università di Nottingham, in uno dei Centri più all’avanguardia nel mondo per la ricerca e le cura della sordità: i medici decisero di inserire un impianto cocleare nell’orecchio destro della piccola. Era febbraio del 2001 e per Holly la vita poteva ricominciare. L’impianto cocleare, infatti, è un “orecchio elettronico”: un piccolo apparecchio esterno elabora suoni e linguaggio in segnali digitali; questi arrivano al ricevitore interno, che li trasforma in segnali elettrici con cui si stimola direttamente il nervo acustico. Da qui l’informazione sonora arriva alla corteccia uditiva cerebrale, che quindi riconosce questi stimoli come veri e propri suoni. L’impianto cocleare perciò non è un semplice “amplificatore”, ma un mezzo con cui il sordo profondo può effettivamente tornare a sentire. È stato così anche per Holly, che nel 2007 è stata sottoposta a un secondo impianto cocleare nell’orecchio sinistro: pian piano, grazie alla riabilitazione per il linguaggio e alla musico-terapia, è uscita dal silenzio.

UNA BRAVA PIANISTA – Il contatto con la musica per lei è stato fondamentale: «La musico-terapia era una parte del suo programma di riabilitazione, ma quando ha iniziato a fare esercizi al piano ci siamo accorti che ha un vero talento per questo strumento – racconta la madre -. Oggi Holly è un’ottima pianista, più avanti negli studi rispetto alla sua età. Quando è rimasta sorda ero determinata a far sì che questo evento catastrofico non segnasse per sempre la sua vita, ma non avrei mai immaginato che Holly potesse arrivare a tanto. Quando la sento cantare e suonare mi sembra un miracolo». La pensa così anche nonno Ken Loach, anche lui orgoglioso della coraggiosa nipotina. Ed è pensando a lei che il regista ha deciso di sostenere il Family Lab, una nuova esperienza da poco avviata alla Biomedical Research Unit in Hearing dell’università di Nottingham, dove Holly è stata operata. Nel Family Lab genitori e bambini vengono filmati mentre interagiscono e giocano liberamente. Poi, tutto viene analizzato dai medici per migliorare la comunicazione coi piccoli sordi: le espressioni del viso, il linguaggio del corpo, i gesti sono scandagliati e studiati assieme ai genitori per trovare la chiave per un’interazione sempre più efficace coi bambini.

IL FAMILY LAB – «Aiutare i genitori di bimbi sordi a comunicare meglio con loro è indispensabile e il Family Lab mi sembra un’idea brillante – ha detto Loach all’inaugurazione del laboratorio -. Filmare le persone è un ottimo modo per osservarle con una maggiore attenzione rispetto al solito: da singoli fotogrammi possono emergere particolari che altrimenti passerebbero inosservati e invece possono essere decisivi per migliorare la situazione». La dottoressa James finora ha lavorato con 20 famiglie, con grande soddisfazione: «Il metodo aumenta la fiducia dei genitori, perché capiscono che è possibile aprire canali di comunicazione efficace coi loro bimbi. Molti si sottoporranno a un impianto cocleare, ma nell’attesa non possiamo sprecare tempo: si tratta di bambini piccoli, in un momento critico per lo sviluppo della relazione familiare. Il Family Lab vuole potenziarla al massimo e spesso ci riusciamo: ho lavorato in maniera simile con famiglie di bambini autistici e ne ricordo una, in particolare. Con la telecamera “catturammo” un attimo di contatto visivo fra il bimbo e la madre: ci lavorammo su, cercando di capire gli atteggiamenti e i comportamenti che lo favorivano. Col tempo siamo riusciti a prolungare il contatto visivo a cinque minuti».

Elena Meli. Fonte: corriere.it

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